Editoriale

Quell'esame chiamato (un tempo) maturità

Peccato però che più che dei “poveri bimbi” gli importi soprattutto di loro stessi, per il timore che un risultato “poco blasonato” getti una macchia sul loro blasone di poveri, meschini, sconosciuti artigiani del sapere

Domenico Del Nero

di Domenico Del Nero

lass="s2" style="margin-top: 0px;margin-bottom: 0px;">E così, ancora una volta, dopo cinque anni cala il sipario, ma l’ultima scena è forse la più dura, senz’altro la più temuta. L’esame di stato viene ancora una volta a sancire la fine di un corso di studi: è uno dei rari momenti in cui i media si interessano del mondo della scuola e non solo per eventuali  sciagurate riforme e reazioni talvolta, se possibile, ancor più sciagurate, ma almeno in apparenza, della sua realtà più intima: quella della didattica, di quel rapporto importantissimo che è il dialogo educativo.

In apparenza, certo: quello che poi importa davvero è quasi sempre il dato statistico, il gossip, al massimo l’intervista scelta “per caso” nella scuola più in di una città importante, con docenti e studenti debitamente ammaestrati e il dirigente a cui non sembra vero di avere l’ennesima occasione di essere “sul giornale”.

Eppure, le cose da dire, da ricercare, sarebbero tante.

Perché, sebbene ridotto sovente a una parodia , l’esame di stato  (detto un tempo “dimaturità”) che conclude il ciclo delle scuole superiori conserva tutto sommato un qualcosa di particolare: forse è l’ultimo, o uno dei pochissimi, “riti di iniziazione” a cui i ragazzi devono sottoporsi, anche se non si capisce più bene a che cosa debbano essere iniziati.  Prova che turba i sonni, fa tremare le vene e i polsi e il cui ricordo popola i sogni persino per decenni, anche se poi si rivela quasi sempre ben poca cosa rispetto alle aspettative più o meno cupe: insomma, la solita vecchia storia della montagna che partorisce il topo. E non sono solo gli studenti a entrare in fibrillazione, ma talvolta anche chi dovrebbe giudicarli: mai come durante gli esami di stato persino la più incallita, acida e patentatadelle zitelle (in versione femminile e maschile) riscopre l’istinto materno, al punto da passare ben oltre i confini del lecito nell’aiutare i poveri  bimbi” (fino al giorno prima di solito dipinti come i più orridi mostriciattoli) a fare quella versione di latino che di sicuro sarà infattibile … persino più di quelle assegnate talvolta distrattamente durante un  faticoso e annoiato  triennio? Questo naturalmente se è un membro interno, altrimenti ….

Peccato però che più che dei “poveri bimbi” gli importi soprattutto di loro stessi, per il timore che un risultato  “poco blasonato” getti una macchia sul loro blasone di poveri, meschini, sconosciuti artigiani del sapere. Perché poche categorie come gli insegnanti  impallidiscono alla sola idea che qualcuno si permetta di valutarli ….

E così, accanto a persone motivate, serie e preparate come solo i “veri” insegnanti sanno essere, si incontrano sin troppo spesso  nelle commissioni d’esame due categorie altrettanto pestifere ed esiziali: le “tate”, ovvero per l’appunto i prof animati da un improvviso e irrefrenabile  “istinto materno” della tredicesima ora, e gli aguzzini, coloro cioè che sovente dopo un anno trascorso a farsi prendere per i fondelli dalla propria classe che li ha considerati, come si soleva dire in goliardia, minus quam m…. , scoprono improvvisamente in sé una natura leonina che li spinge a  “vendicarsi” su ragazzi (e su colleghi) che non c’entrano assolutamente nulla con i loro persecutori, veri o presunti.

Ma non è di questa ciurmaglia che si vuole parlare, anche se sarebbe bene che qualcuno (che possibilmente non siano Renzi o la Giannini, Dio ce ne scampi e liberi il primapossibile) prima o poi si decidesse a chiudere i conti con chi ha decisamente sbagliato mestiere.

Ci sono professori e ragazzi che, pur nelle difficoltà di un rapporto quotidiano non certo facile, da posizioni spesso diverse e a volte contrapposte, sono cresciuti insieme. E’ il miracolo della scuola: quello del docente, mestiere bistrattato, ingrato e per certi aspetti infame, ma per altri unico, straordinario. C’è gente che si commuove, si emoziona e “sbrocca” (come direbbero per l’appunto i ragazzi) a veder crescere una pianticella o un cucciolo; e che dire allora di un giovane?

Operazione complessa, difficile, esposta a rischi di vario genere, primo fra di tutti quello di un eccesso di coinvolgimento” non solo eticamente e professionalmente errato, ma che espone al rischio di tremende delusioni.

Chi insegna per vocazione, non solo per mestiere, deve sapere che si deve essere disposti a dare tutto senza ricevere nulla. Non solo;  deve sapere che dopo un cammino durato alcuni anni i ragazzi che hai visto crescere, che ti hanno fatto imbufalire, che avresti battuto volentieri contro il muro (a rischio di romperlo) non si sa quante volte perché in fondo gli volevi più bene di quanto fossi disposto ad ammettere con te stesso prima che con loro, spariranno dalla tua vita con la stessa velocità con cui ci sono entrati. E alcuni di loro, forse, che tu lo abbia o meno meritato, faranno anche finta di non vederti quando passi per strada.

E’ una sorta di “patto formativo” che devi stipulare con te stesso prima  che con loro: dare tutto senza aspettarti nulla, anche perché – se lo avrai meritato – puoi comunque ricevere dai ragazzi molto di più di quanto non ti aspetti: la magia del  loro sorriso, uno sguardo di fiducia o di gratitudine; senza contare la profonda  emozione di quanto ti accorgi che il loro confuso balbettio si trasforma in un discorso articolato e coerente, e improvvisamente  Leopardi, Boito, Seneca e Pirandello non sono più mattoni che ti getterebbero volentieri in testa, ma possono diventare anche per loro compagni di strada; o quando riesci a fargli comprendere che prendere certe  “scorciatoie” via cellulare o affini in una prova  è il primo passo per quella squallida e meschina mentalità  “italiota” dell’arte di arrangiarsi, della piccola truffa e dell’imbroglio istituzionalizzato che sono, in fondo, le basi di ogni “buona”  mentalità mafiosa. Insomma, quando li vedi trasformarsi da “animalozzi” in uomini e donne degni di tale nome … e a volte ti stupiscono perché lo sono più di tanti cosiddetti adulti.

Momenti che certo hanno anche il “rovescio della medaglia” ma che nessuno stipendio principesco può eguagliare o compensare, emozioni che ti accompagnano per tutta la vita e il cui ricordo ti rallegra le giornate più grigie.  Si può dire che ogni classe scriva un capitolo nella vita di un insegnante: e come succede con i libri, su alcuni non ci torni una seconda volta, altri non finiresti mai di rileggerli.

Per chi – ragazzi e docenti – viva la scuola in questo  modo l’esame di maturità, allora, è davvero una prova di iniziazione. E’ il banco di prova di un rapporto durato anni, in cui ciascuno – e questo è il presupposto sine qua non – deve essere ancora una volta al suo posto, senza tradire il proprio ruolo ma  nemmeno il proprio rapporto. E’ insommal’ennesima quadratura del cerchio. Ma proprio per questo è una prova unica, almeno per i ragazzi;  per i docenti – quelli degni di tale nome – che accompagnano i propri studenti agli esami questa prova si ripete spesso, di solito ogni due anni. E ogni volta la sfida consiste nel tifare per loro senza “doparli”, senza imbrogliare le carte in tavola:  senza mosse che vanificherebbero il messaggio etico e morale, oltre che culturale, che hai cercato di trasmettere loro per anni; ma anche senza farli sentire soli.

Una quadratura del cerchio, appunto.  Ma se si partisse da qui il nostro paese potrebbericominciare davvero a sperare di non essere solo una espressione geografica sempre più imbrattata.

In bocca al lupo, ragazzi: ma non dimenticate che fra i lupi ci sono anche io, per favore non costringetemi a mordervi! E magari evitate di dire crepi….

In bocca al lupo V F!

 

 

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