Editoriale

Ancora sul 25 aprile in un paese che ha bisogno di un nemico del passato per sopravvivere nel presente

Sembra impossibile che dopo 70 anni ancora ci si schieri come se il ventennio fosse appena caduto eppure senza quel fantasma da infamare la politica come la conosciamo si sgretolerebbe

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

bocce ferme (o, se si preferisce, a schermo spento), vorrei aggiungere qualche considerazione sparsa all’ottimo articolo di Bozzi Sentieri sul 25 aprile. Intanto, anche quest’anno siamo arrivati a questa fatidica data attraverso un percorso di riti laici preparatori, nei quali hanno fatto la loro parte pedagogico-celebrativa le televisioni, la carta stampata e, ovviamente, le Istituzioni. Una volta di più, abbiamo avuto la certezza che, nell’oceano di relativismo che ci sommerge, abbiamo almeno uno scoglio di assoluto: il Bene, rappresentato dalla Resistenza al nazifascismo, e il Male, rappresentato appunto da quello stesso nazifascismo sconfitto nella Seconda Guerra Mondiale e dal quale si celebra la Liberazione ogni 25 di Aprile.

Del resto, non si perde occasione per ricordare che la nostra Repubblica è nata dalla Resistenza: un sostantivo che, in verità, indica soprattutto un atteggiamento passivo, di chi si oppone, di chi nega, di chi non riesce a contrapporre un progetto a quello imposto con la forza e contro il quale ci si limita a resistere. Sappiamo che in realtà non fu così: i partigiani, e soprattutto le armate alleate vincitrici erano portatori di una visione del mondo contrapposta a quella dei fascismi europei; e poi almeno una parte dell’Italia, quella aldilà della linea gotica, fu teatro di un’aspra guerra civile, tra i sostenitori della Repubblica Sociale e le formazioni partigiane, sullo sfondo del più ampio conflitto fra le truppe alleate e quelle tedesche. Dunque, il mito della Resistenza nasce su di un terreno semantico fallace.

Vale la pena di sottolineare – è risaputo, ma non guasta ripeterlo, soprattutto a beneficio dei più giovani – che il 25 aprile non può essere compreso se non si esaminano a fondo gli avvenimenti che precedettero e seguirono l’8 settembre, data nefasta per valutare la quale basterebbe ricordare il verbo coniato dagli inglesi:  to badogliate, badogliare, tradire con ignominia; senza dimenticare l’appassionato saggio di Ernesto Galli della Loggia  sulla “morte della patria”. Se si aggiungono: la viltà della dinastia sabauda, in fuga verso l’Adriatico meridionale; gli accordi fra la mafia e le truppe americane sbarcate in Sicilia; la stanchezza, dopo anni di guerra e di privazioni, di gran parte della popolazione italiana, ormai incline all’indifferenza, specie al Sud, e poi all’euforia di fronte alla prospettiva della pace, identificata con l’avanzata delle truppe alleate; ancora, se si pensa alla contrapposizione, non sempre sotterranea, fra la componente comunista di obbedienza staliniana e quelle monarchica, liberale, cattolica e socialdemocratica della Resistenza, allora il quadro di quel 25 aprile appare un po’ meno oleografico.

Qui non si vuole discutere sugli eroismi – che ci furono da entrambe le parti – e sugli episodi di crudeltà (idem); così come non si dovrebbe contestare che in entrambe le parti vi furono sinceri patrioti, capaci di sacrificare la vita, pur di salvare l’onore della Patria, inteso da ciascuna delle parti a suo modo. Solo, non ci si può travestire da vincitori, saltando sul carro di chi la guerra l’ha davvero vinta, soprattutto quando il cambiamento affonda le sue radici nel tradimento. Mi piacerebbe sapere in quale paese la festa nazionale coincide con la celebrazione di un’invasione, da parte di eserciti che si sono coperti d’infamia, violentando tanti connazionali (ricordate “La Ciociara”?) e, nei casi migliori (!)  corrompendo e illudendo le nostre donne (e perfino i bambini: andate a rileggervi “La pelle”, di Malaparte).

I Tedeschi erano occupanti, si dice: cosa avrebbero dovuto fare, dopo l’8 settembre? Chiedere scusa, togliere il disturbo, guadagnare il Brennero e lasciare campo libero al nemico “americano”?

Quanto al fascismo, dipinto come “Male Assoluto” anche da chi aveva preteso, fino a poco prima, di farsene continuatore, dispiace che, pur dopo la mirabile rilettura fornitane da storici non certo di parte, come Renzo De Felice, imperversi ancora la sua “leggenda nera”. Vivo a Roma, dove la struttura urbanistica risente ancora in maniera marcata del pur breve passaggio del Fascismo: per limitarmi ad un piccolo episodio familiare, qualche settimana fa ho assistito ad una recita organizzata dalla scuola media di mia nipote; si trattava di rievocare, attraverso letture e recitazioni, il rastrellamento degli ebrei romani nell’ottobre del ’43. Ebbene, questa performance si svolgeva nel Teatro Italia, uno dei tanti gioielli architettonici che – non solo a Roma! – si devono al Fascismo; circostanza che nessun professore si è degnato di ricordare a quei ragazzi.

Del Fascismo, a questi ragazzi, si parla unicamente per dipingerne orrori ed errori, che certo non mancarono; ma la scuola non dovrebbe limitarsi a ripetere una logora vulgata e soprattutto non dovrebbe inculcare un atteggiamento conformista e acritico nei suoi discenti. Del ventennio fascista si ricordano le leggi razziali e la guerra perduta, nei casi più evoluti, col sovrappeso del delitto Matteotti, del carcere per Gramsci e Pertini, del confino per Carlo Levi e compagni. Nessuno che faccia conoscere ai nostri giovani i meriti del Regime, che indussero un consenso senza precedenti, portando un paese arretrato nella modernità.

Stato sociale, politica industriale, alfabetizzazione e riforma della scuola, prestigio internazionale, grande visione della storia e del ruolo nel mondo da conquistare all’Italia. Certo, la Guerra, e l’infelice alleanza con Terzo Reich; qualcuno allarga le critiche alle mire coloniali ed alla costituzione di un impero; Ma sono rilievi che non tengono conto dello “spirito del tempo”: allora, per limitarci alla guerra, l’idea di un conflitto dove si mettessero in gioco le vite proprie e quelle di eventuali nemici era ben presente nell’immaginario quotidiano della gente, e la nozione del Bene comune non si limitava alle “cose” (l’acqua, ad esempio), bensì alle tradizioni ed ai progetti futuri.

Un’ultima annotazione: in occasione di questa ricorrenza, ogni anno si fa appello alla pacificazione attraverso il riconoscimento di una storia comune: sul tema e sull’ipocrisia che viene dissimulata a stento, basti pensare alla rimasticatura della questione toponomastica romana, che vede ancora una volta negare l’intitolazione di una strada a Giorgio Almirante, in una città che dedica importanti arterie a Lenin e a Togliatti, mentre la Presidente della Camera propone l’abbattimento di monumenti dedicati al Duce del Fascismo. A proposito di storia e di memoria condivisa…

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da Mario Conti il 28/04/2015 00:31:23

    Ho la sensazione che, negli ultimi anni e soprattutto in questo, le celebrazioni siano, se possibile, aumentate; buffo ma vero. Il 25 scorso facevi zapping e avevi l'impressione che si trasmettesse a reti unificate; pubbliche e private. Sorvolando sulla giustezza e veridicità dei contenuti, sa comunque di malato questa tetragona insistenza, che parla evidentemente di una società - o meglio dei suoi presunti portavoce - che senza più uno spirito, a corto di idee e di un progetto sociale, riempie i vuoti col polistirolo di furori vecchi di 70 anni. Non si muove più niente, in tutti i sensi. Una volta pensavo che tutto questo fosse frutto di gelide e chirurgiche strategie di potere; oggi, anche guardando alla scuola (mio figlio ha 15 anni), propendo per la scarsa attitudine: bisogna essere bravi per trasferire valori. Così le nuove generazioni, tirate su a vecchi slogan per loro vuoti di senso, non educate all’analisi, addestrate al pensiero Bignami, saranno sempre meno reattive e sempre più esposte alla suggestione di formule azzeccate quanto vuote. Un risultato non male.

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