Lettura intimistica di Metha

Violetta della Traviata diventa una vittima dell'ipocrisia del suo tempo

Il Direttore sembra aver ritrovato una sicurezza che sembrava aver invece smarrito in Falstaff (almeno nelle prime recite), partitura certo molto più complessa e articolata.

di Domenico Del Nero

Violetta della Traviata diventa una vittima dell'ipocrisia del suo tempo

Eva Mei

“Direzione crepuscolare, quasi con accenti pucciniani”; così  la bacchetta di Mehta avrebbe ridato vita – e morte – al fascino malinconico di Violetta Valery, la Traviata  di Verdi che affoga tristemente in un mondo di lusso, di trine e di ipocrisia. Qualcuno,  più malignamente, insinua anche nel grande direttore una nota di stanchezza.

Al contrario, l’impressione è che in questa Traviata  Mehta abbia ritrovato una sicurezza che sembrava aver invece smarrito in Falstaff (almeno nelle prime recite), partitura certo molto più complessa e articolata.  Sicurezza che non significa peraltro toni troppo accesi o impetuosi, che in quest’opera è decisamente meglio evitare; del resto, dove c’è – per forza di cose – da far ruggire la “grancassa” del musicista bussetano  Mehta non si tira affatto indietro, come in certe scene d’insieme del primo e del secondo atto.  Ma sono i toni lirici e intimisti ad essere privilegiati soprattutto nelle romanze o nei momenti più drammatici, come la stupenda esclamazione (uno forse dei momenti più alti di tutto Verdi)  amami Alfredo!

Lo spettacolo in scena in questi giorni è decisamente di buon livello, anche se forse non proprio come l’edizione del 2012.  La regia di Henning Brockhaus non era certo una novità, ma gli anni e le repliche non ne hanno scalfito il fascino e la presa sul pubblico. “Non è rimasto niente di quello che Dumas caratterizzava con l’espressione Demi – Monde, oppure parlando del salotto di Violetta “Ce cloaque splendide “ Quello che si vede di solito è una bomboniera di costumi e allestimenti in cui si svolge una storia d’amore quasi astratta. Invece è importantissimo capire che Violetta è  ‘una puttana’, come diceva letteralmente e chiaramente Giuseppe Verdi”, dichiarava il regista.

Per la verità, non è precisamente questo che si vede nell’edizione fiorentina.  Sarà per la lettura intimistica di Mehta o per l’interpretazione di Eva Mei, ma Violetta appare se mai una vittima: del cinismo e dell’ipocrisia del suo tempo e del non saper essere, al contrario a quanto pare della “originale” Marie Duplessis, abbastanza cinica. E la regia, con le scene di Josef Svoboda, coopera molto bene a questo effetto, soprattutto nelle scene più fastose e festose: l’abile gioco di specchi, oltre a dare l’illusione di moltiplicare le presenza in scena e di una visione “bidimensionale” accentua la solitudine disperata della protagonista, anche nei momenti di maggiore euforia: tutti sembrano immersi in un sfrenato e orgiastico (ma niente di scabroso in scena, per fortuna!) divertimento, mentre lei è sola con se stessa e con le sue illusioni.  Forse non del tutto azzeccato il prato di fiorellini del secondo atto, ma è peccato veniale. Molto belli e “in tono” i costumi di Giancarlo Colis, che contribuiscono a ricreare un atmosfera veramente demi monde, anche se forse più  belle epoque che non Luigi Filippo.

Sul piano vocale, una grande Eva Mei da dato vita a un personaggio straordinariamente sensibile e tormentato, grazie a una buona recitazione  che ha perfettamente messo in sintonia vocalità e situazione scenica. La Mei è un soprano “di coloratura” e il ruolo di Violetta non sarebbe proprio tra i più congeniali, ma la cantante lo affronta con grande intelligenza e abilità, oltre che con una tecnica impeccabile. Notevoli soprattutto il suo fraseggio,  in particolare nei momenti più drammatici ( come  nell’Addio del Passato  del terzo atto) e naturalmente le coloriture.

Ovazioni più che meritate alla grande soprano, mentre qualche contestazione per il tenore Ivan Magrì, caratterizzato da una voce robusta ma con un declamato e una intonazione non sempre corretti e poca “limpidezza”. Una voce  discreta ma che deve maturare.  Paolo Gavanelli è sicuramente un Giorgio Germont “di mestiere” (riesce tra l’altro a rendere perfettamente l’ipocrisia e l’odiosità del personaggio) anche se la sua voce ha destato a tratti qualche perplessità: molto “scura” e forse sin troppo potente, anche se il cantante ha cercato comunque di adeguarla al personaggio, con varietà di accenti e sfumature.

Eccellenti la prova del coro, giustamente applaudito con entusiasmo e di un’orchestra sempre all’altezza della sua reputazione;  e nell’insieme comunque il pubblico ha decretato allo spettacolo un meritato successo, che ha tra l’altro registrato il tutto esaurito. Da vedere senz’altro le ultime due repliche, a condizione però di trovare posto!

Ultime recite: 7-8 aprile, ore 20,30.

Piaciuto questo Articolo? Condividilo...

Inserisci un Commento

Nickname (richiesto)
Email (non pubblicata, richiesta) *
Website (non pubblicato, facoltativo)
Capc

inserisci il codice

Inserendo il commento dichiaro di aver letto l'informativa privacy di questo sito ed averne accettate le condizioni.

TotaliDizionario

cerca la parola...