24 febbraio 1842

Arrigo Boito, il ribelle gentiluomo

Poeta, musicista, critico indisponente e caustico, seppe lanciare per davvero un guanto di sfida alla cultura dell’Italietta risorgimentale

di Domenico Del Nero

Arrigo Boito, il ribelle gentiluomo

ARRIGO BOITO

Sguardo, tagliente, acuto; espressione ora bonaria, ora ironica ma nel complesso enigmatica,forse … mefistofelica. Il 24 febbraio 1842, a Padova, nasceva uno degli artisti più singolari del secondo  Ottocento italiano. Verrebbe voglia di dire “uno dei più grandi”, anche a costo di attirarsi ire e fulmini di critici e studiosi che, solo a sentir parlare di Boito e magari  della Scapigliatura, quell’eterogeneo ma singolarissimo e originale movimento artistico e letterario  che si agitò in Lombardia  (soprattutto) e in Piemonte a partire dagli anni ’60 dell’800, sono presi da violenti rigurgiti di conformismo classificatorio: schiacciati tra il genio solitario di Leopardi, il classicismo un po’ pedante e babbione di Carducci e i decadenti Pascoli e D’Annunzio (per non parlare di Manzoni e Verga sul fronte della prosa) gli Scapigliati sono parsi a qualcuno dei pasticcioni un po’ velleitari e tutto sommato sconclusionati; ed è sicuramente di molto conforto la bella formula che uno studioso del calibro di Walter Binni seppe individuare per rinchiudere definitivamente gli Scapigliati nella gabbia dei minori insignificanti: il divario intenzioni – risultati.  Per riprendere un bellissimo verso boitiano:  povera fede e immensi ideali[1] .

Non tutti certo sono rimasti prigionieri di questa comoda gabbia interpretativa e negli ultimi decenni si è assistito anzi a una decisa rivalutazione, se non della Scapigliatura nel suo complesso, perlomeno degli esponenti maggiori del movimento: compreso certo Arrigo Boito, che persino da Benedetto Croce e da Binni era considerato il migliore (o forse è il caso di dire il meno insignificante.)

Ma la rivalutazione ha toccato soprattutto il poeta e il letterato: la figura dell’artista nel suo complesso resta forse ancora in ombra. Poeta, musicista, critico indisponente e caustico, Boito seppe lanciare per davvero un guanto di sfida alla cultura dell’Italietta risorgimentale, senza paura di mostri sacri come Manzoni e Verdi:

“Alla salute del’Arte Italiana!/ Perché la scappi fuora un momentino/dalla cerchia del vecchio e del cretino/giovane e sana.

Forse già nacque chi sopra l’altare/rizzerà l’arte, verecondo e puro/Su quell’altare bruttato come muro/ di lupanare.

“ Se anch’io, fra gli altri, ho sporcato l’altare, come dice Boito, egli lo netti e io sarò il primo a venire a accendere un moccolo” ringhiò il surciglioso Verdi a questi versi (peraltro neppure eccelsi, Boito  aveva già dato e darà prova di saper fare ben di meglio) dell’Ode all’arte Italiana, pubblicata nel Novembre 1863. Ancora oggi si discute se fosse per davvero il musicista bussetano uno dei bersagli, ma è certo che questa sua reazione dimostra una certa “coda di paglia”.  Eppure sarà proprio Boito, con le creazione dei testi di Otello (1887)e Falstaff (1893), a metterlo in condizione di avere la sua ultima e forse migliore stagione creativa.

Ma nel 1863 quei tempi erano ancora lontani: nel marzo di quell’anno a Torino, insieme all’amico e sodale scapigliato Emilio Praga aveva rischiato il linciaggio con la rappresentazione di una commedia a quattro mani dal titolo Le madri galanti;  oggi riesce difficile capire cosa possa esserci di tanto scandaloso in quel testo, ma allora, al teatro Carignano di Torino, successe un pandemonio. Roberto Sacchetti, epigono della Scapigliatura, ci ha lasciato un gustoso e significativo ritratto dei due artisti in quella circostanza:

“Subito al primo atto scoppiò il finimondo. Arrigo Boito, bravo sino alla temerità, s’era avanzato tra le quinte più sulla scena e là, mani nelle tasche dei calzoni, una sigaretta sfatta tra le labbra sottili, sfidava l’uragano. Praga venne a prenderlo per il braccio dicendo Vieni Arrigo, prima che ci accoppino. E discesero al vicino caffè del Cambio e cenarono allegramente, mentre si faceva della commedia l’estremo scempio.”[2]La stampa battezzò la sfortunata commedia Le madri calanti e su di essa calò definitivamente il sipario. Ma quel fiasco fu come un sinistro presagio che accompagnerà Boito sino al naufragio di una creazione tutta sua, di ben altro livello e spessore: il Mefistofele.

Appena cinque anni separano i due eventi: ma già da questo episodio si può intravedere il carattere dell’uomo e dell’artista.  Figlio  di Silvestro Boito, pittore non privo di talento ma irrequieto e instabile e della contessa polacca Giuseppina Radolinska, Boito conserverà per tutta la vita la capacità di armonizzare uno spirito ribelle e inquieto con un carattere signorile e distaccato, coraggioso a volte sino alla temerarietà ma quasi sempre capace di un ferreo auto dominio. Non per nulla, Dualismo è il titolo della splendida poesia che apre il suo Libro dei Versi, ma il dualismo, la contrapposizione di due principi opposti, il Bene e il Male, è un vero e proprio leitmotive che attraversa tutta la sua produzione sino allo stillicidio del Nerone.

Il libro dei versi, composto da testi apparsi in periodici e strenne tra il 1862 e il 1867, sarà proposto in volume solo nel 1877 e poi in una edizione successiva nel 1902. Si tratta di poche liriche, ma dalla densità e dagli esiti artistici di grande valore: sul piano del lessico, di una musicalità nuova, dantesca e non più petrarchesca, tutta giocata su un ritmo spesso martellante e dissonante, quasi a voler esplorare tutte le possibilità della parola di convertirsi un suono: la ricerca della fusione perfetta di poesia e musica sarà un’altra delle costanti della sua vita. Questa volta però, a differenza di Verlaine o di D’Annunzio, che coltivavano una sola musa, Boito aveva il dono sia dell’arte del verso che di quella del suono. E liriche come LezioneD’anatomia o Case Nuove sono esempi straordinarie di ampliamento del lessico poetico (dai termini scientifici della prima alla progenie dei lupi e delle scrofe, epiteto in puro stile dantesco con cui il poeta bolla gli speculatori edilizi) e di una nuova sonorità; così come lo è l’altra straordinaria creazione poetica boitiana, il poemetto Re Orso (Re Orso ti schermi/dal morso de’vermi!) del 1865: ispirato probabilmente in modo del tutto libero alle Malebolge dantesche, è stato giustamente definito  poesia che è già musica,  e si è notato tra l’altro che la sua struttura è quella di un poema sinfonico.[3]  La cupa vicenda medievale di un torbido e favoloso “ re di Creta” che si macchia di crimini abominevoli narrati  con straordinario effetto di “straniamento” e talvolta quasi comico, ha dato filo da torcere a tutti gli studiosi boitiani che si sono arrovellati sulle fonti, sui precedenti e sul vero significato dell’opera, ignorando l’ironico ammonimento finale dell’autore:

Né savio motto - né aforismo dotto,
Né sermo o perno - di morale eterno
Niuno cerchi da me.

Sol lo strambo - quaderno - un ambo - o un terno
Può dar di botto - per chi giuoca al lotto.

Dunque ascoltate - l'ambo e il terno c'è:
Un boia e un frate - un gobbo, un verme e un re.

Ma la poesia di Boito non è affatto, come non pochi detrattori hanno insinuato, puro funambolismo verbale. Come notava Rodolfo Quadrelli “L’intuizione più importante degli Scapigliati  (…) consiste nella riscoperta del Male, un male non correggibile né dalle riforme sociali né dal progresso scientifico e, ciò che più conta, rinvenibile nelle viscere e nelle latebre di quel moderno che, per definizione, sembra poter fare a meno di ogni metafisica entità. (…)Si dirà che anche certo romanticismo europeo aveva compiuto questa scoperta, ed è vero; ma in essa è sempre presente l’autogratificazioneche il poeta porge a se stesso per il proprio dolore. I maggiori Scapigliati, Praga e Boito, ma soprattutto Boito, seppero rinunciare a questa auto gratificazione, e diversamente dai Romantici, la sofferenza appare in loro nel suo aspetto squallido e degradante”[4]

Una tematica, questa del male che si annida nelle viscere della modernità, più che mai attuale e affascinante e che si ritrova, insieme ad altre suggestioni che derivano da Hoffmann o Poe, nei quattro straordinari racconti che l’autore pubblicò su rivista, progetto per un volume dal titolo Incubi e idee fisse che purtroppo non fu portato a termine: il celebre Alfier Nero, Iberia, Il trapezio con un protagonista cinese per realizzare il quale Boito si documentò moltissimo sulla storia e cultura del Celeste Impero e infine Il pugno Chiuso, forse il più vicino al modello di Poe, ritrovato solo alcuni decenni fa. Ma urgeva ormai la grande sfida dell’opera d’arte totale: dopo tante battaglie e polemiche letterarie sul Figaro e su altre riviste e giornali,  Boito “provocò” il mondo musicale italiano: un’opera d’arte totale di cui fosse, tragico moderno alla maniera di Wagner, autore del testo, della musica, della coreografia, e che cercasse di superare la spezzettatura del discorso musicale nei vari pezzi chiusi o formule, come Boito li definiva.   Il soggetto fu nientemeno che il Faust di Goethe, affrontato in tutta la sua complessità: un prologo e cinque atti, con titolo Mefistofele.  La storia della prima dell’opera ricorda quasi quella di partita di calcio con opposte tifoserie: rappresentata alla Scala il 5 marzo 1868 dopo continui rinvii, fu uno più colossali “scandali” della storia del venerando teatro milanese, che quella sera comunque dette pessima prova di sé: ““In platea, nel loggione, nei palchi di quinta fila fischiavano come tante anime dannate. Eran rossi, scalmanati, con gli occhi accesi, parevan pronti a sbranare l’autore. C’era da aver paura”, commentava Marco Sala, un amico di Boito che ci ha lasciato una vera e propria cronaca dell’evento; [5] ma non era il solo. Così commentava il celebre giornalista Eugenio Torelli Viollier, su La gazzetta di Milano  ( 9 marzo 1868) “ Fuori dal teatro l’ansietà non era minore che nel teatro stesso. In parecchie case e in qualche caffè si ricevevano dopo ogni atto notizie sull’andamento dello spettacolo; un’ora dopo mezzanotte il telegrafo era in moto, e fino alle quattro del mattino si discorreva nei caffè e per le strade della gran caduta del Mefistofele. Se un’ala del teatro della Scala fosse crollata, la sua rovina non avrebbe prodotto una sensazione più profonda. “[6]. Anche in quella circostanze comunque l’artista dette prova di grande coraggio e sangue freddo ed è pura leggenda (che comunque rende bene l’idea del clima) che si fosse recato a teatro con una pistola in tasca.

Certo, Mefistofele risorgerà grazie alla più aperta e “wagneriana” Bologna nel 1875: stavolta sarà un meritatissimo trionfo e da allora l’opera non è più uscita dal repertorio internazionale, nonostante le coliche biliari di vari critici e barbassori ogni volta che viene riproposta. A prezzo, però, di una profonda revisione e di sacrifici che se, a giudizio di chi scrive, non  ne hanno intaccato il valore artistico (ma la questione è molto controversa, anche perché comunque, purtroppo, Boito distrusse la partitura della prima versione) certo hanno profondamente modificato il profilo originario. Ma essa rimane comunque un capolavoro che costituisce uno spartiacque nella vita musicale italiana, perché costrinse comunque a fare i conti con i nuovi orizzonti della musica europea, un testo letterario più dignitoso, il ruolo dell’orchestra non più marginale edi  puro accompagnamento del canto.  Ma segnò anche uno spartiacque nella vita dell’artista, che sembrò (apparentemente) appagarsi quel successo per calarsi nell’officina alchemica del Nerone, la grande, originalissima tragedia musicale  con cui si misurò per circa mezzo secolo lasciandola peraltro non finita nello strumentale alla sua morte nel 1918. Nerone ebbe un destino opposto a quello dell’opera sorella: rappresentato con successo (anche se con alcune riserve critiche) nel 1924, non entrò nel repertorio e pur essendo opera di straordinario interesse e qualità artistica è difficilissimo poterla vedere in teatro. Si spera che il 2018, centenario della morte, sia finalmente l’occasione buona. Ma tra il 1875 e il 1918 la vita artistica e personale di Boito fu ricchissima, con la collaborazione e l’amicizia con l’antico rivale Verdi, quella con letterati anche diversissimi da lui come Verga,( con cui ebbe forse però anche un duello); la sua grande attività come organizzatore di cultura e direttore del conservatorio di Parma, la generosità con cui aiutò colleghi più giovani, tra cui Puccini. E infine,  la tempestosa relazione con Eleonora Duse tra il 1887 e il 1898, finché non si affacciò nella vita dell’attrice quel D’Annunzio che Boito cordialmente detestava, ma che  nel Compagno dagli occhi senza cigli ci ha lasciato uno degli elogi più belli e meritati del grande poeta musicista:  “Maestro di tutte le arti, occulto, pieno di segreti, che facilmente gioca e non rivela mai il gioco difficilissimo a cui sembra di continuo intento il suo spirito; dedito ad un ozio senza riposo perché sa con che lenta pazienza il tempo formi il diamante nel cuore della roccia”.

 



[1]Arrigo BOITO, A Giovanni Camerana, in Arrigo Boito,poesie e racconti, a cura di Rodolfo Quadrelli, Milano, Mondadori, 1981, p.79.

[2]Domenico DEL NERO, Arrigo Boito, un artista europeo, Firenze, Le Lettere, 1995, p. 53.

[3]IBIDEM  p. 62

[4]Rodolfo QUADRELLI, Poesia e verità nel primo Boito, in Arrigo Boito, poesie e racconti, cit. p. 7.

[5]Domenico DEL NERO, Arrigo Boito; un artista europeo, Firenze, Le Lettere, 1994, p. 86.

[6]  IBIDEM, P. 87

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