La saggezza di Spinoza

L’analisi di Hervé A. Cavallera

L’autore non rinuncia alla profondità analitica ma ha l’indubbio pregio di riuscire a parlare anche al neofita

di Giovanni Sessa

L’analisi di Hervé A. Cavallera

La copertina del libro

L’ultimo libro di Hervé A. Cavallera, docente dell’Università del Salento, ha meriti indubbi. Innanzitutto, riporta l’attenzione su una delle figure più rilevanti della storia della filosofia occidentale, Baruch Spinoza, riaprendo, in termini eminentemente teoretici il dibattito che lo riguarda. Secondariamente, l’esegesi che le sue pagine propongono, mira a liberare il pensatore di origini ebraico-sefardite, da alcuni luoghi comuni che gravano da troppo tempo sulla sua considerazione. Il volume a cui ci riferiamo è Spinoza. La saggezza dell’Occidente, da poco nelle librerie per i tipi di Pensa MultiMedia editore (per ordini: 0832/230435; info@pensamultimedia.it euro 16,00). Si tratta di un’opera strutturata in sei saggi, cui fa seguito un’appendice costituita da alcune recensioni e scritti diversi di argomento spinoziano.

  L’autore non rinuncia alla profondità analitica ma ha l’indubbio pregio di riuscire a parlare anche al neofita. Si serve, allo scopo, della persuasiva capacità affabulatoria che connota la sua prosa e di una particolareggiata ricostruzione, sia degli eventi biografici, che dei momenti salienti della speculazione di Spinoza. Cavallera rileva, preliminarmente, che il filosofo olandese: “…fa trasparire tra gli esiti della filosofia rinascimentale e del trionfante cartesianesimo una cultura diversa” (p. 31). Con Hegel, l’autore ricorda che in Spinoza, per la prima volta, l’intuizione orientale dell’identità assoluta, è stata accostata alla filosofia europea. Pertanto, se nella sua teoresi è innegabile il debito cartesiano, l’esito del suo pensiero va ben oltre i confini segnati dalla storia del cartesianesimo e oltre gli esiti stessi del matematismo seicentesco. Pensatore eclettico Spinoza, il cui originale sincretismo, nasce dalla profonda conoscenza, acquisita nel corso di una esemplare vita studiosa, del neoplatonismo ellenistico, rinascimentale e bruniano, ma anche da una puntuale e critica lettura della filosofia ebraico-cabalistica. In questo senso, mentre: “…il Dio di Cartesio… conserva ancora molti tratti del Dio cristiano…il Dio spinoziano, principio naturale e immanente…appartiene ad un clima culturale molto diverso” (p. 10). Il “modo” geometrico con cui, in latino, compose l’Etica, serviva semplicemente a raffreddare, nella ricerca dell’oggettività espositiva, la concettosità barocca, nella quale si mostrava la formazione scolastica del filosofo. Dice bene Cavallera, il senso ultimo del capolavoro spinoziano è soteriologico. Per questo, in esso i contenuti tendono, a più riprese, a erompere dallo stile matematista, involucro esteriore, mostrando l’afflato mistico sotteso ma non del tutto contenibile.

  L’intento  dell’olandese è perseguire la somma felicità, data dalla conoscenza adeguata delle cose. Una gnoseologia, quella di Spinoza, legata alla saggezza antica, e per questo immediatamente correlata all’etica e all’educazione: “Di qui l’importanza che in Spinoza assume la filosofia della pratica” (p. 13). Il processo di apprendimento, nel suo terzo momento, trova il culmine dell’ascesa, in quanto solo nell’intuizione, oltre la conoscenza sensibile e quella della scienza, è possibile vedere le cose nel loro procedere da Dio, è possibile guardare il mondo sub specie aeternitatis, dal medesimo punto di vista che è del Principio stesso. Da ciò si evince come il filosofo non sia affatto ateo, questa è la ricorrente accusa che gli venne rivolta nella sua epoca, ma abbia mirato alla “divinizzazione” del tutto. L’intuizione conclusiva, ha tratto mistico, dà luogo all’indiarsi dell’uomo. In tale realizzarsi si scopre, di fatto, l’identità di libertà e di necessità e soprattutto che: “…l’individuo è libero quando si riconosce all’interno del processo di cui è parte e coincide con esso” (p. 20), quando, cioè, ha coscienza di corrispondere al Principio stesso. A questo punto, l’autore si chiede se per Spinoza il processo generale del deus sive natura sia orientato ad un fine. La risposta è necessariamente negativa, in quanto pensare finalisticamente, implica subordinare Dio ad un fine che non gli apparterrebbe. Sminuirlo nella sua infinità.

  L’uomo di Spinoza, animato da atteggiamento pratico, non ritiene la conoscenza un bene fine a se stesso: il saggio ha il dovere di contribuire alla “liberazione” dei propri simili. In che modo? Attraverso l’educazione e l’esempio etico. Infatti, in tale prospettiva conoscere e volere, sono una ed una medesima cosa, ma non tutti gli uomini possono giungere a giuste deliberazioni (in ciò è da cogliersi l’aristocratismo sofocratico del pensatore). Il filosofo deve adoperarsi affinché il maggior numero di suoi simili giunga al secondo grado di conoscenza, onde metterli in condizione di ben operare. Insomma, nell’olandese sono valorizzate al massimo livello tanto la prima quanto la seconda “conversione”, di cui Platone ha magistralmente detto nel mito della caverna. Lo Stato di Spinoza ha tratto etico, la sua azione deve favorire lo sviluppo conoscitivo umano quale condizione imprescindibile per il controllo-guida delle passioni. In esso: “L’uomo impara a vivere secondo gli interessi della comunità…ed è pronto ad ascendere al terzo genere di conoscenza” (p. 28). L’azione etico-educativa dello Stato induce il superamento dell’individualismo e libera la mente del volgo dei falsi idoli, quali il denaro, che lo relegano a una condizione di vita meramente “animale”. Il buon governante deve essere non solo competente e capace, ma exemplum, modello etico del cittadino.

  A tali posizioni Spinoza pervenne anche in conseguenza dell’esser stato osservatore partecipe ed interessato degli eventi storici, estremamente drammatici, della propria epoca, età bisognosa di ordine e verità. Inoltre, Cavallera coglie l’importanza che sulle scelte del filosofo ebbe la maledizione che fu scagliata, contro la sua persona, dalla comunità ebraica di Amsterdam. Spinoza di fatto negava l’immortalità dell’anima individuale, leggeva in termini critico-storici la Bibbia, ritenendola testo indirizzato da ottenere l’obbedienza delle masse, e negava, almeno parzialmente, la stessa elezione del popolo d’Israele, il cui primato agli occhi di Dio sarebbe stato esclusivamente di ordine mondano. Dopo la maledizione, iniziò a circolare il Trattato dei Tre impostori, attribuito erroneamente al filosofo, in cui le sue idee erano estremizzate e volgarizzate in senso libertino e dissacratore, cosicché cominciò a pesare, nei suoi confronti, il giudizio escludente di intellettuale ateo e pericoloso. La vita sobria e ritirata, così come il rifiuto della cattedra universitaria ad Heidelberg (ben retribuita), al fine di evitare condizionamenti ideali e limitazioni alla propria libertà di pensiero, testimoniano, al contrario, dell’autenticità sapienziale di Spinoza.

  Il lettore abbia, inoltre, contezza che Cavallera attualizza l’esegesi spinoziana in un confronto serrato con le posizioni maturate da Guido Ceronetti, attratto e respinto, al medesimo tempo, dalla filosofia dell’olandese, e soprattutto con le opere di Elémire Zolla ed Emanuele Severino. Il primo, in sintonia con Spinoza, nel secondo Novecento si sarebbe fatto latore di una filosofia della liberazione. Il secondo, nel rifiuto della follia concettuale dell’Occidente, il divenire, e nel recupero dell’eleatismo: “…insiste sulla permanenza di ciò che appare, in quanto esso è l’eterno” (p. 141), affermando in tal modo l’eternità degli enti. La sua riaffermazione gloriosa dell’eterno essere, consentirebbe, in colloquio con Spinoza, il superamento della linea del nichilismo e del mondo della povertà spirituale estrema imposto dal Gestell, l’impianto della tecno-scienza.

    Indubbiamente le posizioni idealiste e le letture di Spinoza prodotte nello stesso ambito del neoidealismo italiano (di cui quella di Cavallera è esempio rilevante) hanno contribuito a tracciare un ritratto biografico-intellettuale più vicino al vero di Spinoza. Al riguardo, forse vale la pena ricordare che, muovendo dagli stessi presupposti ma giungendo a posizioni ultraattualistee ultranichiliste, Andrea Emo, indicò probabilmente una via altra di esegesi del nesso tempo-eternità. Insegnò, infatti, che l’eternità la si può amare solo nella presenza.

Ma qui, avrebbe commentato Calvino, il discorso si farebbe davvero interminabile.

   Ci limitiamo a suggerire che, merito ulteriore del libro che abbiamo sinteticamente presentato, è quello di aprire prospettive teoretiche centrali, non solo per il presente degradato nel quale ci è dato di vivere, ma per il nostro futuro.

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