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I necci di Gavinana

Paesaggi su di un volumetto preunitario -Seconda e ultima Parte-

Se si volge il guardo per un qualche grado da occidente a settentrione, il sole che tramonta sul mare tinge, e la coda dell’occhio se ne avvede, le cime dell’Alpe marmifera e le nubi sovrastanti di rosa

di Piccolo da Chioggia

Paesaggi su di un volumetto preunitario -Seconda e ultima Parte-

Forte Dei Marmi, anni fa

Un’ immagine questa che si può stranamente rivedere trasformata quando si assista all’armeggiare continuo e rapido delle due padelle roventi dai lunghissimi manici che serrano la pastella per gettarsi nel fuoco e restituire fumanti i necci di Gavinana, dischi rotondi rugginosi fatti di farina di castagne sale ed acqua.  Con cacio ed erbe e poi con frutta possono ridurre all’osso eppure in perfetto equilibrio nutritivo le necessità alimentari apuane come per un assedio lunghissimo.

Necci

 

Il mare antistante urla selvaggio nel grigio ottobre. A febbraio nei dì senza vento rare sterne dileguano sulle sue acque e i fiumiciattoli che scendono dalle colline di Seravezza e di Ripa accolgono il rifluire delle onde marine, che fra le canne delle due rive si frantuma in continue minute ondicine. Le sparse selve di cespugli e di pini marittimi accolgono qua e gli steli chiodati dei ginepri dai quali cogliere le bacche. Rivolta col tramonto sul mare l’Apuania marina è, per un paradosso esplicitato da innumeri avvenimenti una regione dell’ aurora. 

 Foto storica M.Apuania

Se si volge il guardo per un qualche grado da occidente a settentrione, il sole che tramonta sul mare tinge, e la coda dell’occhio se ne avvede,  le cime dell’Alpe marmifera e le nubi sovrastanti di rosa. All’opposto, volgendosi di qualche grado dal tramonto al meridione la coda dell’occhio scorge subito le desolate colline pisane, striate di rocce affioranti, inondate di luce ed il cielo appena sovrastante blu e violetto ma filato molto in alto da vapori che il sole sparente arrossa. In entrambi i casi si percepisce certo il dì che termina, ma anche un prepotente anticipo di luce di là da dove l’alba prossima deve salire. E il paesaggio, che è marino montano e collinare in un raro equilibrio, si fa, in questo scambio di luci, da bello e pittoresco a  selvaggio e quasi ostile.

 

Il cultore di storia militare qui trova una maggiore possibilità di impressioni di quelle che può avere un poeta se immagina le notti di guerra, quando l’oscuramento dei centri abitati per gli attacchi aerei immergeva nel buio assoluto la riviera marmifera, ultimo termine a occidente della linea gotica, accendersi dietro la cresta dei monti di lampi del duello notturno e irregolare delle artiglierie opposte.  

 Limestre

La tempra più aurorale che pomeridiana della regione ducale e apuana sembra quasi tramandare, in guisa di benevola presa in giro del positivismo dottrinale dell’università di Pisa, un curioso fatto di cronaca. In quel di San Marcello Pistoiese, due chilometri a valle di Gavinana sulla via di Lucca e in costa al torrente Limestre, nel 1887 era inaugurato il terzo impianto di illuminazione elettrica dell’Italia ora quasi unita. Antico municipio di carbonai pastori e di coltivatori di piccoli orti montani ma dotato, sia detto, della sua scuola musicale e di un organo settecentesco di tutto rilievo, San Marcello aveva urgente necessità dell’illuminazione elettrica. La centrale non era certo sulle acque del povero Limestre, un rio che svolge comunque il nobile ufficio estetico di nutrire le radici di smaglianti cornioli, ma sul corso rapido e impetuoso della Lima che accoglie pure le acque cristalline che scendono dal Pian degli Ontani di Beatrice. 

La connessione razionale pure se illogica per questo fatto è in questo: il sole che tramonta nel mare apuano tinge del rosa dell’aurora prossima le creste dell’Alpe marmifera e il  cielo sulle colline pisane ma questi raggi faticano ad arrivare fin sul cielo dell’Apuania orientale di Gavinana, San Marcello e dell’Oppio. Di qui la necessità urgente di provvedere per il possibile, con rame e l’elettricità, alla tempra aurorale del paesaggio.  

 

Che il volumetto colle sue parole ottocentesche e spesso desuete ovvero quasi inutili, sia stato impresso in una tipografia del Ducato lucchese o del Granducato dell’Asburgo Lorena non è possibile sapere. Certo è che, storicamente, mi è arrivato sul tavolo proprio da una casa di Gavinana e quindi  la sua carta fibrosa ma fine ha vibrato per oltre un buon secolo alle note della favella apuana. E tanto basta. “Gatteggiare” e “gattillare” sono due verbi mai incontrati altrove. Mattolina è un nome che sembra quasi puerile per l’allodola. Gatteggiare è prima esplicato in un genitivo: “di opali”, e dipoi voltato in un verbo corredato di efficace scenografia: “=splendere variabilmente ne’ colori a guisa degli occhi di gatto”. Gattillare è il “mandar fuori la voce del gatto”.  La sera di Gavinana, primaverile ed estiva, è descrivibile in alcune sue variazioni minori anche da questi due verbi. Per le vie dell’antico municipio montano, quando il cielo prende i colori della volta notturna e pian piano si accende di stelle, agli angoli delle case messi in allerta dai passi del viatore fanno capolino quatti quatti i felini che gatteggiano non appena un raggio di luce incontri i loro occhi. 

E rompono il silenzio negli angoli solitari fra le case gattillando nelle loro schermaglie. In Via degli Ortacci, alla voltata verso la discesa che va alla Porta Pievana, nel piccolissimo slargo dove una volta si apriva il cancello della Pista degli Abeti vi sono i conviti di gatti più affollati. Qui non è raro la sera, camminando alla flebile luce dell’illuminazione pubblica inciampare in qualche ciotolina di latte dipresso ai muri. A pochi metri da questa via, altri conviti della famiglia felina assai frequentati sono sulle due salite ripide, tortuose e cortissime che portano da due direzioni al Palazzo Achilli, una piccola dimora signorile con un bel portoncino ad arco affacciata su di una piazzetta delimitata da alcune case coi rispettivi orti antistanti. Una di queste case, sopraelevata col suo orto da un paio di gradini in pietra sul lastricato comune era l’abitazione di Geri di Gavinana, il Poeta locale. 

Palazzo Achilli (Gavinana)

Su di un lato del Palazzo e ortogonale alla sua facciata una fila di vasi da fiori si stende in lungo a formare una sorta di siepe che ripari l’ingresso d’una casa laterale. Da un foro nel lastricato fra un vaso e un altro un alberello di rosa canina cresce aggrappato ad un bastone di sostegno conficcato nel suolo. La piazzetta è minuscola, ma s’immerge in un bellissimo panorama: dietro le case, guardando a mezzogiorno si vede, oltre i tetti e in distanza il monte di San Vito che si leva sul versante opposto della valle, quello di Limestre; guardando a settentrione oltre il tetto della casa del Geri, il declivio su cui è adagiata Gavinana stessa sale verso le sue abetaie che alla vista paiono vicinissime. Non mi sorprende che il Poeta abitasse proprio in questo luogo preciso: lo spazio d’uso antistante è modesto, piccoli sono casa e orto anche se dignitosi e con un tocco di nonchalance paesana, e vi è lo spettacolo inestinguibile del panorama.  D’inverno sulle cime carraresi scende il manto di neve che ora, per i cambi intervenuti nel clima, è più raro. Bianco di neve su bianco di pietra era l’immagine abbagliante che balenava nel genio di Pound. 

La casa del Geri


Sull’Appennino che sovrasta Gavinana Pistoiese e sull’antico municipio, la neve si limita ad imbiancare gli abeti che popolano fitti, dopo il rimboschimento unilaterale degli anni venti, i declivi montani, e poi i tetti e le vie. Lo spettacolo è assicurato per chi vuole ammirare un paesaggio di favola italica spoglio di qualsiasi dettaglio pittoresco e immergersi nella pura atmosfera della stagione candida senza ricorrere alle oleografiche figurazioni del centro Europa.

 

Leggo qua e là qualche pagina di storie locali. Al di là dell’ultima battaglia per la Repubblica Fiorentina avvenuta intorno a Gavinana, gli aspetti che più mi attraggono sono quelli del tempo del Granduca Leopoldo secondo, quando l’amministrazione di stampo quasi reazionario alla Metternich si volge al nuovo e progetta e costruisce strade ferrate e telegrafi. In questo come avviene nella dolce Vienna, della quale il Granducato esteso dall’Appennino al mare è la Atene delle arti plastiche, stante il titolo di capitale musicale alla città danubiana. E però se in Vienna un potente motore nell’uso delle nuove invenzioni viene anche dall’armata imperiale, munita fin dal tempo delle guerre napoleoniche di un valentissimo corpo di ingegneri e architetti militari, nella Atene fiorentina sembra quasi che oltre all’interesse civile ed amministrativo per vapore e telegrafi quasi alberghi ancora l’antico spirito di curiosità di un predecessore di Leopoldo secondo dedito a continui esperimenti di fisica e versato nelle matematiche. 

Di un interesse militare pare, a dire il vero, non esservi alcuna traccia. È plausibile che quello che è l’ultimo Granduca fiorentino avesse lasciato all’armata imperiale di Vienna il gravoso e dispendioso ufficio di difendere dei confini lontani e sempre più labili e si fosse concentrato, così risparmiando sulle casse dello stato, per ravvivare una amministrazione illuminata e innovativa. E però sulle acque? Scorrerie di navi senza bandiere erano, al tempo, ancora possibili e difatti una fu proprio sulla riviera apuana, quando al Forte dei Marmi, nel non lontano 1846 o negli anni intorno, una torma di banditi della tratta delle bianche, calatisi da una nave, avevano assalito il povero municipio in riva al mare e armi alla mano ne avevano rapito donne e bambini. 

Allora, donne e bambini apuani erano tenuti per belli, con le chiome brune, il colorito candido e rosato e la complessione slanciata. Il governo granducale aveva avuto un bel dire nel rimproverare al governo piemontese l’incapacità di stare ai patti, dato che a quest’ultimo per un trattato in vigore fra i due stati era confidata l’azione di contrasto su navi ostili. La marina dei piemontesi avviava così quella fama che doveva confermarsi con la figura pietosa del 22 maggio 1848 all’estuario del Piave e ultimarsi nella tragedia di Lissa. Cosa sia davvero successo in quel triste dì apuano vuole studi più documentati di storia marinara, ma il maggio del ‘48 sul Piave e poi Lissa lumeggiano assai bene come faciloneria, incapacità di comando, tecnica immobile e arretrata gettino a mare il coraggio di molti. Aveva in rango la marina granducale una pirocorvetta? Oppure nel caso minimo una lancia armata e a vapore? Se questo fosse stato, i banditi non potevano darsi alla fuga portando con sé donne e bambini senza subire alcun danno.

 

Sul piccolo vocabolario preunitario non si trovano le parole: “piròscafo” ovvero “pirocorvetta”. Alla voce “vapore” piuttosto appare, fra le altre, la seguente coppia di esplicazioni complementari precedute dal segno tipografico dell’uguale in matematica:”=il vapore fu applicato come potentissima forza motrice”; e: “=spesso, invece di battello a vapore, dicesi semplicemente vapore”. Scarna, esatta semplicità pure se in composizione rispetto allo snellissimo “piròscafo” che già nel suono fa balenare l’immagine d’una chiglia affilata che fende le acque. Quasi si può supporre che “battello a vapore” o “vapore” siano stati i termini primissimi il cui suono condensava l’idea della vecchia nave dalla chiglia ancora panciuta e mossa lentamente dalle ruote e con cauzione alle pressioni della macchina. Qui vedono gli occhi i battelli a vapore che risalgono lenti la corrente dei fiumi le cui acque mai possono montare in tempesta. Con “piròscafi” si vedono già le onde mosse del mare aperto e le navi a ruote oppure ad elica stagliare la loro siluetta con il fumaiolo che lascia all’indietro per la velocità di traslazione il vapore di scarico.

 Lago di Massacciuccoli 

Le date storiche sono irregolari: in quel di Vienna, la navigazione a vapore si avviava nel 1830 e l’anno successivo era regolare il traffico di una nave a ruote con il solito fumaiolo decorato in nero e oro, i colori della casa d’Asburgo, che saliva e scendeva il corso del Danubio. Nella Berlino prussiana era dal 1816 che un vapore a ruota unica scivolava sulle acque della Sprea.  E sul mare apuano? O, dato che le novità vanno prese con cautela, nessuna prova di un vapore a ruote era avvenuta sullo specchio d’acque contornate di canneti del lago di Massaciuccoli? Pure nel tempo granducale resta l’onda di questo laghetto povera di ispirazione e ricca solo di cacciagione? Non è dato al momento sapere. Se il caso aiuta e fa rinvenire delle cronache disperse su qualche quaderno d’archivio ecco che è possibile di scoprire pagine interessanti della storia minore. Se corredate delle belle litografie di quel tempo, e per le navi a ruote di Vienna e Berlino le stampe celebrative d’epoca sono a colori, è maggiore la gioia della scoperta pel suo figurare inoppugnabilmente ciò che avvenne e come lo videro gli occhi del disegnatore. Di sicuro la dinamica Livorno, che nel 1844 è raggiunta dalla via ferrata di Pisa e contemporaneamente dal primo telegrafo elettromagnetico, conosce da tempo la navigazione a vapore che ha sempre preceduto nella storia l’arrivo delle “rotaje”, più dispendiose e disperatamente impotenti senza lunghissime volute di curve o gallerie alla prima altura da superare.

 

 

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da daniele il 14/09/2014 00:22:37

    Quelle mostrate in figura non sono necci ma frittelle di farina di neccio. Per vedere come è fatto un neccio: http://it.m.wikipedia.org/wiki/Necci

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