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«Scusa, ma tu chi sei?»

Irina ovvero la dolce solitudine di maggio

Ma è la primavera, con le sue aurore annunziate dal rosa lanciato a oriente dai raggi del sole al tramonto e io, ahi! son solo come il solito e non voglio farmi sempre i chilometri girovagando per vie e riviere e sentieri senza compagnia

di Piccolo da Chioggia

Irina ovvero la dolce solitudine di maggio

È un pomeriggio della metà di marzo. Le chiedo l’ora mentre passa sul ponte dove spesso mi arresto a guardarmi svagato gli alberi delle rive e i flutti intrecciati delle acque correnti. Lo ricordo bene perché gli alberi che cominciavano a rivestirsi erano sovrastati da un cielo di belle nubi che si rincorrevano in vari colori. Lei, molto riservata e carina mi dice l’ora e se ne va. Quasi non si era nemmeno fermata.

Di nuovo sul medesimo ponte e qualche mese dipoi, passando, incrocio sotto il sole abbagliante una bionda che mi guarda e sorride. Resto leggermente stupito e però ho la presenza di spirito di invertire il cammino, inseguirla per un breve tratto e, raggiuntala, domandarle un cordiale “scusa, ma tu chi sei?”. Lei ora si arresta e risponde. Si chiama Irina e mi rammenta d’esser la giovane cui io avevo chiesto l’ora in quel pomeriggio del marzo trascorso. Questa volta è più facile intrattenerci e abbozzare anche una prima conversazione. È russa, è stata studentessa in quel di Mosca e ora, da poco laureata, è qui per le solite borse di studio. Da allora la incrocio ancora altre volte per tutta l’estate, e spesso scambiamo anche qualche parola fino a che, un giorno di fine agosto, ci mettiamo d’accordo per una passeggiata insieme. Le do il mio numero di telefono e lei mi assicura che, una volta finite le sue incombenze universitarie, mi chiamerà. È sull’inizio di ottobre che ricevo il messaggio. Ci troviamo sempre al ponte e da lì decidiamo di percorrere le belle riviere in una lunga graziosa passeggiata, quando la temperatura è ancora mite ma i colori degli alberi bruciati dall’estate passata sfiammano in uno sgargiante giallo oro per poi qua e là acquietarsi nel rosso e nel bruno autunnali. Lei mi racconta di Mosca e dei suoi studi. Mi stupisce perché pur scrivendo su riviste di economia e finanza si interessa di dottrine esoteriche e yogiche. Ad un certo punto la faccio anche ridere mostrandole, lungo la riviera, un anziano e distinto signore che legge in piedi un ponderoso tomo aperto e poggiato, come se fosse su di un leggìo, sul muretto che costeggia l’argine. Probabilmente era un filosofo che su quel parapetto aveva ritrovato, attardato e rinsavito dopo le brucianti primavere elleniche, una tranquilla accademia in vista delle acque. È allegra e intelligente, fredda nelle emozioni ma gradevole come conversatrice per la capacità che ha di cogliere immediatamente l’ironia e replicarvi con abilità. 

Ha imparato ad esprimersi in un discreto italiano. In centro città, dove per variare il percorso arriviamo giusto in tempo per ammirare le vetrine chic dei negozi ancora aperti, l’aria non è più così pungente come lo era lungo le riviere. È l’ora del passeggio e lei, con vanità piuttosto vellutata, si toglie allora il maglioncino blu che indossava e resta in maniche corte con una canottierina nera scollata che fa risaltare il suo incarnato chiaro, la figura molto femminile e i capelli biondi.  

Ma oltre quella volta non la rivedo più e me ne dispiace, a parte un fuggevole saluto quando la incrocio nel centro città in compagnia d’una anziana signora, forse la madre. Arriva il maggio. È ancora fresco e i colori sono vivissimi. La luce del dì che si allunga sempre più mette una gioia incontenibile. Sapevo dove abitava e mi aveva detto pure il suo cognome. Passo dunque davanti casa sua. La prima e unica volta che l’accompagnai fin sulla soglia, al ritorno dalla passeggiata d’ottobre, non aveva ancora messo il nome sul campanello e nemmeno mi aveva voluto indicare quale fosse quello del suo ritiro. Un modo scherzoso ancorché esplicito per farmi notare che non voleva scocciatori. Ma è la primavera, con le sue aurore annunziate dal rosa lanciato a oriente dai raggi del sole al tramonto e io, ahi! son solo come il solito e non voglio farmi sempre i chilometri girovagando per vie e riviere e sentieri senza compagnia. Penso infatti che potrei gustare finalmente una passeggiata lungo il fiume con Irina fino a quella casetta celeste che tanto mi affascina con la sue imposte rustiche e le piante di limoni nel giardino minuscolo. Vedo il da farsi, sono un po’ combattuto perché non mi va di fare delle figure da patetico cercatore di compagnia, ma poi mi decido, passo davanti casa sua a veder se forse le va di uscire in via improvvisata.

Arrivo alla villetta anni 30 nella quieta periferia padovana. Suono al campanello di mezzo che ora porta stranamente anche il suo nome. Si vede che di scocciatori in fondo non se ne son visti tanti. Aprono il cancello. Entro nell’androne della casa in stile razionale, con un alto soffitto e la scala in marmo dalla balaustra in legno sopra un muretto di cemento intonacato. Causa i colori bruniti delle pareti, lontani ormai dal bianco abbagliante della casa nuova negli eleganti anni 30, l’atmosfera appare come di tempo passato e di casa disabitata. E domando allora, non appena uno scricchiolio che proviene dalla tromba delle scale mi fa intendere che una porta si è aperta al piano superiore:“è la casa dei fantasmi questa?” E’ una voce di donna che subito sento ridere e poi chiedere: “ma chi è?” Rispondo: “sono il fantasma della primavera e cerco l’Irina!”  Ora sono delle risate di più donne che odo e poi un sommesso confabulare, e, infine, della quiete in sospeso per un istante. Ritorna la voce udita che dice, allegra,: “Irina dorme di già, era tanto stanca stasera”. Era la seconda volta che suonavo a quel campanello, la prima era stata una settimana prima quando nessuno mi aveva risposto. Forse perché tutte erano via. Ahi! Passeggerò da solo ancora una volta in questo maggio così chiaro e bello!

Pochi giorni dopo in un declinare di pomeriggio ancor più bello perché le fresche nubi avevano appena lasciato una pioggia leggera e ora solcavano il cielo a mille colori, ritentavo la sorte nel medesimo rituale fatto di suonare e attendere, seguito dall’ingresso nell’androne oscuro che mi proietta in un altro tempo e poi dalla solita voce dall’alto che chiede chi è. ”Cerco Irina”, rispondo. “Chi sei?” domanda la voce femminile. E io: “il fantasma dell’altro giorno” poi però aggiungo il mio nome a voce ben alta perché le fanciulle si rassicurino anche se non mi vedono e proseguo: “che vorrebbe parlare un istante con la Rusalka della Moscovia”. “Se possibile”, termino dopo una pausa e con un certo sussiego. Di nuovo le risatine delle donne in conciliabolo e poi un’aspra risposta pure se data con il solito tono gioioso: “Irina è in camera sua e non può uscire… sai, sta preparando l’elaborato pel suo esame finale…”. Me ne vado piuttosto irritato e prendo la strada che mi porta verso la campagna. Andrò là dove il canale si inoltra nei prati con le acque ombreggiate da torme di salici argentei.

La strada che s’inoltra fra i campi lungo l’argine mi transita lentamente verso il crepuscolo. Cammino con calma sostando qua e là a spilunzicare qualche filo d’erba o qualche spiga dal grano ancora verde. Nel prato costeggiato dall’argine brilla ancora, alla luce che cala, il rosso dei papaveri. Quando arrivo al boschetto che devo superare per continuare il cammino ho d’un tratto paura. L’oscurità è ora completa così come il silenzio. Forse per la delusione del rifiuto, forse per la stanchezza della giornata gli alberi imponenti della selva che non si distende nemmeno per un chilometro lungo il sentiero mi paiono dei giganti minacciosi. Ho come la sensazione che possa succedermi qualcosa, che uno sconosciuto possa aggredirmi. Ricordo d’un tratto l’antica ballata romena, di cui racconta Eliade con il fidanzato che andava a trovare la sua bella ma nel bosco che pure percorreva sempre, per il sortilegio d’una fata gelosa della fidanzata, si perde e lo ritrovano morto il giorno successivo. Forse caduto in un fosso e annegato, forse ucciso dalle pietre su cui batteva la testa nella caduta.

Non avevo interrotto il mio passo e quando il ricordo della ballata e della storia raccontata dal Romeno si precisano nitidi nella mia memoria, sono nel mezzo della selva. Incombenti si fanno gli alberi, fitta è l’oscurità, assoluto è il silenzio. Ogni fruscio d’erbe, ogni stormire di fronda mi fa trasalire. Mi fermo paralizzato dalla paura e mi rimpiatto appoggiandomi ad un tronco. Non so cosa fare. Se proseguire o tornare. Mi pare patetico cedere solo ad una paura innescata da impressioni. Questo sentiero l’ho percorso spesso anche d’inverno e, lo ricordo bene, anche al chiaro di luna. Ma l’inverno tutto dorme, anche gli spiriti e i fantasmi dormono e le stelle, le luci dei casolari lontani rassicurano. Ora invece sta per esplodere la stagione calda e la vita la si sente palpitare fra ogni stelo d’erba. La selva pare popolata di mille occhi che guardino in silenzio. Sono appoggiato ancora al tronco e mi faccio finalmente forza quando mi viene un lampo: “ma come! Irina è a casa sua e non mi attende! E io non sono il suo fidanzato! Non vale per me la triste ballata romena! Nessuna fata , no!, nessuna fata ha motivo d’esser gelosa di lei!”. Per un istante ancora resto appiattito impaurito sul tronco quando per uno strano, stranissimo caso, arriva un piccolo magnifico dono di qualche occhio che veramente mi spiava perché d’un tratto esplode come d’incanto un cinguettìo d’uccelli. Prima è uno e poi sono altri che rispondono. Forse avevo svegliato un nido con i miei passi o scuotendo i rami d’in cima appoggiandomi al tronco. 

Ma in breve la selva si anima di questo inarrestabile canto notturno. Sono rinfrancato! La voce degli uccelli credo proprio non possa che dirmi che tutto è festoso e nessun aggressore è in vista. Nessun fosso irto di pietre è stato scavato sul sentiero che ora è oscuro. Erano solo i miserabili fantasmi della mia suggestione nel buio repentino a farmi paura. Vado oltre e d’un tratto mi sento sollevato. Sono solo ma posso gioire egualmente di questo canto meraviglioso. E non interromperò certo la passeggiata. Passo la selva, ritorno all’argine. È buio ormai ma lontano le luci dei casolari brillano nella sera fresca e bellissima. Arrivo alla casetta celeste colle imposte brune e i limoni che crescono nei vasi. In cielo si sono accese le prime stelle.

Non ho più visto Irina. So che ha ultimato il suo soggiorno di studio. Credo di averla intravista l’inverno appena trascorso con un boyfriend. Lei con un impermeabile rosso vivo sul quale cadeva la bella chioma d’oro. Lui, elegante, in cappotto sportivo scuro. Pochi giorni addietro, ripassavo per caso davanti alla villetta anni trenta e davo un’occhiata ai tre campanelli. In quello di mezzo il foglietto adesivo con i nomi delle studentesse era stato strappato.  

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