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​Il transito delle forme

Da Roerich a Leonidov

a Città del Sole è il cremlino dell’Utopia. Estensioni politiche a questo asserto sono certo giustificate ma solo se estremamente caute e tenute strettamente ancorate sul versante della filosofia.

di Piccolo da Chioggia

Da Roerich a Leonidov

Il transito delle forme come lo si è visto avvenire dalla Trinità di Alexandrovo di Nikolaj Lvov all’utopica Città del Sole di Leonidov non è l’unico di quelli possibili. Le forme possono vagare di tempo in tempo e attraversare vasti spazi. Sfogliando un volume con una raccolta di immagini dei quadri di Nikolaj Roerich, scelti fra i settemila che sembra siano stati da lui dipinti, mi ero soffermato su di una composizione che ritraeva una sterminata pianura ondulata da colline nella quale, in secondo piano campeggiava un villaggio fortificato circondato di mura. Un cremlino dunque, uno di quelli numerosi e dispersi nelle grandi pianure che dall’Europa transitano verso l’Asia. O dal settentrione glaciale verso le altezze gelate dell’Himalaya. Dalle mura, nel dipinto si vedevano svettare i tetti delle costruzioni: chiese con le immancabili cupole a fiamma, e un piccolo palazzo. Lo sviluppo poligonale della cerchia muraria era contrassegnato dalle inconfondibili torrette e da un portale sovrastato da quegli architravi che si elevano in un triangolo curvilineo, che pare quasi la variante popolaresca e arzigogolata dell’antico frontone del tempio ellenico. A questo cremlino tendeva un viatore, o due forse, dato che non tutto riesco a rammentare, lungo un cammino che si distendeva nella pianura e conduceva al portale. Fin qui per ciò che sono i ricordi di quanto è immagine. Posso aggiungere che i colori erano quelli tipici del grande pittore di Pietroburgo, rilevati, e non ambigui, bianche le mura della fortezza, oro e rosso per le cupole e i tetti, le gradazioni dal candido della lontananza al celeste al blu cupo per il cielo più alto.

Avevo letto su di un volume di viaggi dedicato alla Russia che per comprendere questa si devono tenere a mente i suoi cremlini. Una sentenza di Vladimiro Majakovskij. Certo di non semplice interpretazione. Forse da intendere nel senso che le fortezze danno l’identità russa da un lato alle foreste di conifere del nord, la taigà dall’altro alle balze desolate e montuose del Caucaso, oppure distinguono ancora i lembi dell’oriente dominato dalla vetusta Moscovia da quello che si perde nell’immensità dell’Asia. Ma questa è solo la via più breve per esplicare la sentenza del poeta e non è certo esaustiva. In ogni caso da quanto scritto da Majakovskij per dare un ordine al mio studio sull’architettura russa, annotavo sulla carta le linee del cremlino del quadro di Nikolaj Roerich, esso era il modulo primo per il concetto di fortezza o castello declinato sul suolo dei Rus’. Da associare alla chiesa con le cupole a fiamma e all’izba, la capanna prima e poi casa di abitazione, l’elemento che, ripetuto, crea il villaggio. Si noti come questa triade sia la variante russa di quello che Nicolas Gomez Davila chiama il paradigma eterno, spesso dissimulato in guisa di semplice immagine nelle miniature medievali: villaggio, castello, monastero; izbe, cremlino, chiesa.

Ad un certo punto studiando come possono transitare le forme nello spazio e nel tempo pur restando esse le medesime e attuando entro la propria parvenza le dilatazioni e gli allineamenti che conosciamo da alcune proprietà della geometria superiore, mi accorgevo che proprio nella rappresentazione del cremlino del quadro di Roerich che ho descritto si celava come virtuale evoluzione di esso l’architettura utopica della Città del Sole di Ivan Leonidov. Accompagno a queste linee un disegno che esplicita quello che intendo con il breve racconto che segue. Un viatore che affranto dalla fatica cada per un istante nella neve poco prima di arrivare al cremlino, nel sollevarsi immerge il volto nella massa bianca e farinosa e fredda. Stenta a sollevarsi e, aperti gli occhi, vede intorno a sé solo neve. Levando il viso verso la meta, sotto il cielo gli appaiono per prime la cuspide del portale e la cupola a fiamma poggiata sul collo che la sorregge. Una visione possibile, e che mi sembra rendere ragione plausibile dello scarabocchio. La fantasia ha in fondo molti e inavvisati sentieri da poter percorrere e questo ne è uno.

Rifletto dunque ora sul senso più riposto di questa strana e forse ancora impossibile architettura costruttivista. Mi sono di aiuto appunto questi schizzi. La Città del Sole è il cremlino dell’Utopia. Estensioni politiche a questo asserto sono certo giustificate ma solo se estremamente caute e tenute strettamente ancorate sul versante della filosofia. È la lettura dell’opera del monaco Campanella ad ispirare, unitamente alle creature semiautarchiche descritte dallo Haeckel, il modulo di aggregazione reinventato da Leonidov. Molto meno credo la propaganda bolscevica. Il cremlino di Leonidov si leva, come palese dai suoi disegni, su di una landa vasta e spoglia. Landa sulla quale si incrociano come venti che spirano da ogni punto cardinale le voci differenti di idee in moto: rivoluzione rossa, reazione bianca, interessi economici spietati, propaganda ed eccesso. Il cremlino vuol essere allora una fortezza globulare distaccata dal suolo ove si agitano le passioni ed alla quale accedere forse, e qui cedo alle individuali suggestioni originate dal mio saper ormai ridisegnare ad occhi chiusi la Città del Sole, solo dopo essersi acclimatati nella grande piramide. Esattamente come per l’ingresso nel cremlino dipinto da Roerich si deve passare sotto l’architrave triangolare e curvo. Se si guardano bene pure gli spigoli della piramide dell’architetto costruttivista sono curvi.  La piramide come il portale con le loro cuspidi rappresentando un bagno rituale per lavare i residui delle macerie della desolazione in attesa di ascendere al globo utopico.

 

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