Lo stile del poeta ha qui assonanze non comuni e ritmo del verso non regolare ma ineguale...

Un'architettura per Alexandr Scrjabin

Non si creda alle favole che circonfondono d’un curioso romanticismo la lettura

di Piccolo da Chioggia

Un'architettura per Alexandr Scrjabin

Scrjabin e la sfera - Aleksandr Skrjabin

Si può arrivare ad ascoltare la musica di Alexander Scrjabin avendone incontrato il nome in letture estranee a qualsiasi trattato musicale? È appunto un regime di letture disordinate per quanto coerenti nel delineare un ricamo estetico che mi ha permesso di imbattermi nella musica di questo maestro. Non si creda alle favole che circonfondono d’un curioso romanticismo la lettura. Il delicato ricamo estetico cui alludo è tale solo nella mia realtà soggettiva e in essa sola ha la sua ragion d’essere. E qui ne voglio dare la cronaca senza troppi ornamenti. Alcune pagine del “Notturno” di D’Annunzio sono scritte sulla musica del compositore di Moscovia fra le quali le prime linee d’una lunga poesia si incidono nella memoria per il loro vigore nell’evocare tutto il fiero animo russo con il suo passato epico:

Questa sera Scriabìne danza 

con la forza di un arciere del principe Igor,

sul suo cuore immortale

che canta la melodia duplice

del desiderio e del dolore.


A ogni urto 

il suo calcagno insanguinato

rompe il canto e lo difforma.

Ma quando il piede s’alza 

nel ritmo ineguale, 

il desiderio e il dolore

ritrovano le note eterne 

che un nuovo urto infrange.


Egli le ode col capo riverso,

pallido di rapimento;

e il suo viso è come una lampada sublime 

che rischiara la danza ma non la conduce.

Tutta l’anima vi s’aduna e vi splende 

come in un alabastro sensibile


Lo stile del poeta ha qui assonanze non comuni e ritmo del verso non regolare ma ineguale: ora un quadro è racchiuso nel verso conciso, poi lunghi versi danno una cadenza di racconto, composti per suscitare tutta una teoria di immagini. Ad attrarre ancora l’attenzione del lettore sulla musica del compositore russo è Julius Evola in alcuni paragrafi dedicati alle arti dell’opera “Cavalcare la tigre”. E però l’avventura d’un lettore superficiale per vocazione non è tale se non si affida al caso di cadere su alcune scritture frammentarie che a volte si rivelano determinanti per via delle suggestioni cui danno origine. In un volumetto microscopico sulla sfera leggevo di uno strano progetto architettonico ideato dal compositore. Vi era, in quest’opera minuscola, pure la succinta descrizione di una nuda cupola a semisfera, da intendersi quale tempio musicale, elevata su di uno specchio d’acqua in vista un paesaggio particolarmente suggestivo. Vista di lontano, la cupola specchiandosi sull’acqua immobile del lago si riappropriava della semisfera mancante e donava di sé, all’occhio, l’immagine intera. Ecco un caso di inversione architettonica del mito di Narciso. La semisfera non si perdeva nella sua immagine riflessa per cadere in acqua e inabissarsi, ma la teneva salda legata a sé e la riassumeva per ricostruire una lontana unità perduta. Purtroppo il volumetto non proponeva alcun disegno dell’edificio concepito da Scrjabin entro la sua rassegna di sfere paradigmatiche. Provavo dunque da solo a immaginare come potesse raffigurarsi quest’architettura, per poi tradurla, come al solito, in un mio rudimentale scarabocchio. L’assenza, nell’opuscolo di cui ho detto, di un disegno dalla mano di compositore lasciava un buon margine alla mia invenzione. Ideavo dunque la semisfera posta al centro di un bacino di acque a pianta quadra o rettangolare e collegata a terra da due lunghi pontili, uno d’ingresso, l’altro di uscita. Al termine d’ogni pontile immaginavo ad ornamento una teoria di porte mutuate dalle famose architetture del pittore e medico umbro Alberto Burri. Dal disegno che allego a queste linee si può osservare che la composizione degli elementi prevede, al pontile d’ingresso, oltre ai due obelischi di lato decorati sui loro culmini dalle aquile stilizzate ad ali estese, la teoria delle cinque porte con l’architrave superiore come quelle che Burri ha voluto a Città di Castello, mentre, al pontile d’uscita le cinque porte sono eguali a quelle che il medico umbro ha ideato e sono state effettivamente costruite in quel di Ravenna. Esse sono di altro tipo, ovvero aperte in alto ed appaiono quasi come l’ossatura d’una nave rovesciata cui sia stato asportato il lungo trave che forma la chiglia. Anche su questa via campeggiano i due obelischi con le aquile. Quale il può essere il motivo conduttore del mio scarabocchio? Nell’immaginazione di Alexander Scrjabin la musica è, in una forma che risente della sua lettura dell’opera di Arthur Schopenhauer, una “Janua Coeli” ovvero una “porta del cielo”  la quale nel rituale estetico e forse estatico di un’esecuzione orchestrale o pianistica, si accompagna a irradiazioni di luci colorate associate alle note, pel tramite del “clavier à lumières”, e all’arte dei profumi. In tal guisa l’esecuzione e l’ascolto della musica sono composti in un complesso sensoriale concepito per avviare la mente verso un universo spirituale. L’architettura ideata dal Russo doveva essere, appunto, il tempio ove celebrare questo rituale musicale. Interessante, a lato, è l’osservare che la geniale intuizione si palesa in alcuni simboli effettivamente coerenti: il tempio è reale, ed è costruito della materia nascente dal suolo in forma di una semisfera, ma se viene visto un poco di lontano, mentre si specchia sulle sue acque, esso ritorna ad essere con la sua immagine riflessa e immateriale ( e la musica è immateriale!) una sfera intera, che è partecipe di entrambe le nature, la materiale e l’immateriale, ed è segno perenne del “Cosmos”. Abbiamo così modo ora di comprendere il senso intero della mia composizione sui due pontili con le belle porte di Alberto Burri: all’ingresso le porte con l’architrave ribassato, una caratteristica dell’invenzione, danno il segno di una trepidante e silente attesa che forza simbolicamente a chinare il capo. Compiuto il rituale, intravista la “Domus Coeli” attraverso l’estasi mossa dalle onde musicali come si legge entro l’immagine descritta da Scrjabin a margine dei suoi taccuini

 

L’amore in un istante crea l’eternità

E le profondità dello spazio,

l’Infinito anima il respiro del mondo

E di suoni avvolge il silenzio


il pubblico esce lungo il pontile in vista dei picchi montani passando attraverso le magiche cinque porte aperte verso il cielo ideate dal geniale medico umbro. E si esplicita negli enigmatici obelischi, culminanti nelle aquile, il segno che indica l’asse, la direzione lungo la quale possiamo supporre si sia propiziata l’estasi indotta dalla musica. Fin qui dunque la mia invenzione che è di pura fantasia e tiene in modesto riguardo la possibilità costruttiva reale. Mi è apparso come naturale comporre al genio del Russo, che fu lettore attento dei libri di teosofia, e poi di Schopenhauer e dell’ultimo Nietzsche, il genio plastico del medico umbro. Qualche tempo dopo che la mia fantasia si era delineata e l’avevo tradotta in disegno, trovavo per un caso, su di un libro antiquario russo oltre a dei ritratti di Alexander Scrjabin, un disegno di sua mano, scadente come fattura ma comunque preciso quanto necessario. Nella mia fantasia, nata sulla base delle descrizioni lette, avevo visto l’architettura sferica non troppo distante da come l’aveva scarabocchiata il compositore. Dovevo solo aggiungere i dodici obelischi di contorno, cosa che ho fatto, pure se lasciavo cadere per evitare un effetto di sovrabbondanza quasi barocca, dodici ulteriori pinnacoli in sommità della cupola. Completavo il quadro, per collocare il disegno entro un paesaggio verosimile, con abeti sulla riva del bacino, le cui acque immaginavo solcate in un eccesso di suggestioni da un battello a vela e da una nave dei “Rus” a vela triangolare e classica sua slanciata sagoma a due prore, delle quali la anteriore pare a forma di capo di cigno, l’apollineo re del canto.


Poscritto 

Posso dire che all’origine della mia curiosità per la cultura russa tramutatasi poi in ammirazione, vi sia stata la lettura del diario di viaggio di Knut Hamsun nell’inquieta e turbolenta Russia zarista. Il maestro norvegese descriveva con il suo stile da antica saga nordica gli incontri, i paesaggi, le architetture ogni volta in brevissimi tratti scarsi di aggettivi e sostenuti dalle continue immagini che prendevano vita nella mente del lettore. Certo hanno contribuito poi le poche letture dalla scarsa biblioteca familiare quali “il giocatore” di Dostojevskij e il capolavoro del generale e atamano dei cosacchi Krasnoff “dall’Aquila imperiale alla bandiera rossa” a formare quella specie di circonferenza descrittiva intorno ad un pianeta a me celato e complesso, il quale prende lentamente forma con i vari capitoli russi dei quali il presente è parte. Scarabocchio per così dire un paesaggio che vedo di lontano. E i mezzi sono le poche letture, la pittura, l’architettura e la musica che colleziono in forme assai stringate. Entro tutto ciò le 10 sonate di Alexander Scrjabin sono state per me una scoperta magnifica. In grazia assoluta delle letture di cui sopra cui devo aggiungere, ora che lo rammento, pure uno scritto di Piero Buscaroli sul D’Annunzio di nuovo enlevé sur les genoux de la musique nella quiete ombrosa del Vittoriale, oltre all’impareggiabile Notturno ed al volume di Evola. E però, condotto dal ricordo del diario di Hamsun e dalla visione geografica di quello strano lembo all’estremo settentrionale della Scandinavia ove Norvegia e Russia hanno il mutuo confine, all’incontrare una coppia di dischi delle 10 sonate di Scrjabin incise dal pianista norvegese Håkon Austbø li acquistavo senza nulla immaginare. Era stata un’intuizione fortunata, perché l’interpretazione del maestro nordico delle sonate, colla loro progressione dal romanticismo delle prime all’astrazione pura delle ultime, mi è parsa davvero bellissima. Un’altra forma d’arte riuscita d’un connubio nordico russo norvegese dopo il viaggio nelle lande zariste dell’eroe di Fame e Pan. 

Quel lembo di contatto geografico cui ho accennato serba una curiosità ulteriore: intorno al confine si era creata nel tempo una lingua mista, il russonorsk, usata dai pescatori e marinai e fondachieri di entrambe le nazioni pei loro scambi: lingua a grammatica semplificata e di vocabolario che per una metà era norvegese e per un quaranta per cento russo. Lingua povera e senza termini che non fossero di commercio o navigazione e pesca e che ha cessato di esistere con un ultimo documento scritto degli anni 20. Questi frammenti di erudizione da atlante geografico sono posteriori alla fantasia architettonica di cui è stato sopra argomento. Sorrido però nel vedere che nello scarabocchio dell’architettura del tempio musicale avevo varato nelle acque del bacino un veliero che può benissimo essere un brigantino di lupi di mare norvegesi e la nave dei Rus’.  




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