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Un lampo di armonia

Aiuto! I cosacchi abbeverano i loro cavalli alle fontane di Roma!

A Firenze germoglia una graziosa chiesa con le canoniche cinque cupole a fiamma che paiono gocce d’acqua piovute dal cielo

di Piccolo da Chioggia

Aiuto! I cosacchi abbeverano i loro cavalli alle fontane di Roma!

La Chiesa russa ortodossa di Firenze

Aiuto! I cosacchi abbeverano i loro cavalli alle fontane di Roma! Era questo il filo conduttore della propaganda nazionale nel tempo posteriore alla seconda guerra mondiale. L’arrivo dell’Armata rossa a Berlino e, soprattutto, nella non lontana Vienna aveva impaurito tantissimi europei dell’Ovest. Addirittura vi era chi aveva paventato una possibile sovietizzazione del vecchio continente fino al mare di Brest. Queste stanche vicende viste ora, a distanza di tempo, appaiono quasi un’argomento, nemmeno troppo appassionante, per degli archeologi della propaganda di massa.  Sembrerà una contraddizione, di quelle che piovono dalle tempestose nubi del grande spettacolo storico, ma se si ricordano i cosacchi, il lontano passato napoleonico appare a noi ben più prossimo e più bello. Perché in quegli anni di fiammeggianti cavalcate delle Armate lungo le strade d’Europa avvenne realmente che i “cosacchi”, ma più precisamente gli eserciti russi fossero arrivati ad abbeverare i loro cavalli fin sulle rive della Senna e, in Italia, avessero rincorso i nemici in lungo e in largo attraverso le contrade della penisola. Era il 1799 quando al seguito del maresciallo Suvarov, le truppe russe e austriache, che si erano addentrate fino nella ritrosa Valtellina, imboccata la via di Napoli frantumavano in quella città i resti dell’utopica repubblica partenopea.  A Parigi i russi arrivavano una prima volta dopo la disfatta dell’Aquila in quel di Lipsia nel 1813 e poi dopo Waterloo. E tracce di questo cruento ed epico passaggio si trovano nella letteratura di Francia. È Céline che nel “Voyage au bout de la nuit” rammenta la battaglia divampata ai piedi del celebre Montmartre fra gli irriducibili della Guardia Napoleonica e la cavalleria dello Zar. 

Prima di lui con eguale senso della storia, Chateaubriand aveva descritto in vive pagine quanto avvenne nella Capitale sulla Senna subito dopo la caduta dell’Imperatore nella polvere: gli ufficiali dei granatieri russi, alti sei piedi, visitavano ammirati la città e allo Zar veniva chiesto perché non imponesse di mutare il nome ai ponti di Wagram, Austerlitz e dei luoghi delle vittorie francesi sul Russo. Domanda che riceveva la risposta cavalleresca che allo Zar bastava di avervi passeggiato sopra con i suoi soldati. Quanto fin qui detto suggerisce alcune considerazioni. La prima è che la sovietizzazione dell’Europa non poteva che essere fin dagli anni trenta un autentico miraggio. La causa mi sembra già nei crudi fatti: il sovietismo è un evento politico così intriso di “russicità” da parer impossibile che possa tradursi altrove colle sole proprie forze, cosa, questa, già palese anche a una parte dell’élite bolscevica che in virtù di questa constatazione decimò in quegli anni la parte avversa che cullava le fumisterie d’una rivoluzione universale. La lezione della “historia magistra vitae” risulta alquanto insolita: il Russo, da soldato, arriva a malapena fino a Varsavia quando si abbottona una blusa rivoluzionaria mezzo stracciata; arriva stremato da immense perdite a Berlino e Vienna quando indossa il cappotto patriottico, ma passeggia per Parigi, Napoli, Königsberg se si copre, con quanta “nonchalance” non si sa dire, con il mantello del reazionario.  

La seconda è che tracce di dominio russo all’ovest del Bug ve ne sono state ma, caratteristico di esse, è una certa propensione a non troppo esporsi, al non calcare eccessivamente le vie altrui, il che, tradotto in termini pratici dice: non voler assimilare troppo oltre l’indispensabile dalla contrada dominata. Quale avviso di ciò si possono indicare i casi della dominazione in Finlandia, dalla quale pare siano venuti in cambio dei bravi pasticceri in quel di Pietroburgo, i quattro anni passati sulla Kőnigsberg abitata da Kant ancora studente, i dieci anni di Vienna. Sembrano infatti minime le tracce visibili rimaste di queste presenze militari politiche e culturali russe nell’Ovest: delle caserme e qualche monumento che, se non è bello, almeno non è ciclopico e quindi assai meno invasivo di molte costruzioni occidentali dall’impatto estetico agghiacciante. Ecco allora un quesito complementare alle stringate considerazioni premesse: del passaggio di Russi all’Ovest e in Italia che tracce visibili vi sono? In tracce visibili si devono intendere per prima cosa quelle date dall’architettura. Si vede un qualcosa del Costruttivismo? Del Neoclassico? La Città del Sole di Leonidov è stata ridotta dalle utopiche dimensioni e si è trasformata in un arredo elegante e stilizzato per delle vie panoramiche? O la bella Torre-Gru di Alexander Rodchenko è stata ricostruita in legno e, questa volta, in scala maggiore e posta in un bel parco fra alberi d’alto fusto?  Nulla di tutto questo; come detto il Russo fuori del suo spazio congeniale propende a non sovraesporsi. Pure se qualcosa di lui vi è nell’Europa dell’Ovest e in Italia: un qualcosa che a volte prende forma di gioiello d’architettura quali sono alcune chiesette russo-ortodosse sparse qua e là nei paesi europei e, più vicino ancora, nelle nostre città. Nell’ Italia del Nord a San Remo c’è una chiesa di fine ottocento con ricche decorazioni, vi è poi quella di Merano, costruita al tempo dell’imperialregio governo dell’Asburgo, entro la quale un essere di raffinata ipersensibilità potrà percepire ancora la sottile presenza della figlia devota e biografa del grande Dostojewskij, che nella quiete delle Alpi terminò il suo cammino in questa vita.

A Firenze germoglia una graziosa chiesa con le canoniche cinque cupole a fiamma che paiono gocce d’acqua piovute dal cielo. Si immagini di passeggiare in un pomeriggio di fresca primavera per le stradine che salgono, dopo il rione delle Cure, alla collina di Fiesole e, in vista del fantastico panorama della città, si cerchino le cinque cupole della chiesetta russa. Si trovano ma con un po’ di fatica perché non si mostrano troppo e sembrano quasi timide.  E, tuttavia, pure loro portano il lampo di armonia che rende ancora più bella la vista magnifica dominata dalla grazia infinita del Cupolone. E ancora la chiesa di Bari con un'unica ogiva e prossima al mare che la separa dall’Oriente di dove trae nascita l’ortodossia, nell’Ellade già romana e pur sempre imbevuta di filosofia e divini misteri.  Altre tracce di questa pietà russa trasfusa in monumento sono ovunque in Europa, come in Francia o in Germania. In un parco tedesco c’è una chiesetta dalla sorprendente semplicità architettonica e dalla grazia naif che se fosse stata in legno poteva sembrare elevata da un gruppo di mistici monaci in veglia nei boschi. A questo punto si può dire che il Russo appare perplesso oltre i confini del suo spazio tradizionale e, per un paradosso degno di nota, sembra lasciare più tracce della sua pietà che non del suo dominio. Dal mio assiduo studiare la grafica, i disegni, gli schizzi, anche quelli più rudimentali, di maestri russi sono ormai certo del fatto che quando detti maestri vogliono dare un’immagine precisa del loro spazio, sempre fa capolino, lontana o prossima, confusa fra gli alberi o appena rilevata sui tetti, un’aggraziata composizione di cupole a fiamma. 

D’altra parte rammento sempre un’immagine da una novella di Bulgakov del 1935: da un balcone il romanziere guarda rapito il panorama della sua Mosca, costellato di “mille e mille cupole d’oro”.

Poscritto

Sulla Unter den Linden a Berlino, passeggiando verso l’Est, prima di incontrare il ben monumento equestre al grande Federico, se rammento bene, c’è un’opprimente edificio: l’ambasciata prima sovietica e ora russa. Costruita a pochi passi dalla porta di Brandeburgo a sigillo della vittoria del 1945. Nulla o poco di quel che ha reso rimarchevole la via per la storia dell’architettura si è perso: l’Opera, il monumento al re filosofo, la bella neoclassica Neue Wache di Schinkel, trasformata in suggestivo memoriale pei caduti germanici della prima guerra mondiale all’interno dal Tessenow ne ornano ancora i lati. Il fabbricato russo non è bello pur essendo di linee semplici e che non indulgono in esperimenti anticlassici. E comunque se lo si nota perché opprime almeno non lo si nota per l’attentato estetico che certe architetture di certo non sovietiche perché nuovissime compiono altrove ai danni della città.

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