La filosofia di Leopardi

“Misterio grande” e Negazione nel pensiero-poetante del recanatese

L'ultimo lavoro di Massimo Donà da un lato porta a conclusione una via esegetica significativa...

di Giovanni Sessa

“Misterio grande” e Negazione nel pensiero-poetante del recanatese

La copertina del libro

Nella storia di ogni filosofo ci sono opere che segnano in modo indelebile il procedere e lo svilupparsi del pensiero. Libri che, in qualche modo, rappresentano il conseguimento di un punto d’arrivo o, comunque, un momento di sintesi della precedente elaborazione teoretica. Nel caso di Massimo Donà ci pare che questo ruolo sia svolto dal suo ultimo lavoro, Misterio Grande. Filosofia di Giacomo Leopardi, nelle librerie per i tipi di Bompiani (per ordini: euro 12,00). Ci pare che, in questo testo, il pensatore dell’Università San Raffaele Vita-Salute di Milano, da un lato porti a conclusione una via esegetica significativa rispetto all’opera del grande recanatese, inaugurata all’inizio degli anni Novanta da Severino e Givone, tesa a sottolineare l’assoluta rilevanza filosofica della produzione leopardiana ma, al medesimo tempo, prenda le distanze da essa in modo radicale. Allo scopo, l’autore si avvale dalle conclusioni cui è pervenuta la sua riflessione e la sua esegesi della filosofia di Andrea Emo. Questi ha pensato, in un contesto teoretico coerente ed estremo, la negazione quale soggetto assoluto, in senso schellinghiano. Ha insomma, nel cuore vitale della propria speculazione, mostrato una prossimità “amicale” con la visione del mondo leopardiana.

    Sulla scorta di tale acquisizione, a parere di Donà, la lettura del nulla leopardiano condotta da Severino e Givone, è viziata dal tratto ontologico. Essi si riferiscono: “…al mero non essere o non esistere di ciò che è o esiste” (p. 167). Tale nulla, in quanto detto, pensato, in realtà si prospetta come la maschera di un altro essere, è un nulla ricondotto alla dimensione della positività. Per Leopardi invece il nulla, in quanto nulla-di-determinato, ni-ente, non può essere ridotto ad alcuna determinazione. Porlo come pre-esistente alle cose significherebbe effettivamente limitarlo alla dimensione della cosalità, dimidiarlo, in quanto ciò non gli appartiene. Per Leopardi  non vi è un Principio primo ed universale delle cose, esse sono il loro esistere, la loro fatticità, senza inizio e senza fine: “L’esistenza è l’arcano mirabile e spaventoso che né viene “da” né va “verso” qualcosa” (p. 173), misterio grande. In ciò si mostra, in termini espliciti, l’opzione teoretica che, profondamente, connota di sé la posizione leopardiana: quella propria del pensiero ellenico. D’altro lato, Donà ci ricorda che la formazione “illuminista”, libertina, del poeta-filosofo, lo aveva indotto a interpretare l’ex-sistere dell’umana stirpe come mosso dal vano inseguimento del piacere. Vano perché il baluginio che il desiderio di volta in volta accende davanti ai nostri occhi, inaugurando la correlazione di coscienza attraverso l’agnizione volitiva e apprensiva dell’oggetto desiderato, della cosalità, incontra sempre il limite, la partizione.

    La medesima che, dal punto di vista gnoseologico, fin dai versi del poema Intorno alla natura, del “Maestro venerando e terribile” Parmenide, l’uomo occidentale ha abbracciato lungo il “Sentiero del giorno” e della conoscenza centrata sulla ratio. In entrambi i casi, dal punto di vista   pratico e gnoseologico, ci è toccato in sorte di incontrare rispettivamente la dimensione dell’esclusione  e quella dell’ insoddisfazione. Al contrario, Leopardi per primo, e con lui pochi altri, nel Novecento Andrea Emo, recuperano e ri-aprono una diversa prospettiva sulle cose del mondo e della vita. Dico “recuperano”(nel senso di ri-presentano) ciò che era già chiaro ai più antichi pensatori dell’Ellade, al pensiero aurorale, ai “filosofi sovraumani” per usare un’espressione di Giorgio Colli. Noi desideriamo in quanto la dimensione erotica che ci connota in profondità (la cosa è stata rilevata con particolare vigore speculativo da Romano Gasparotti), ci spinge oltre la cosalità: “..ad esser desiderato da noi…è qualcosa che non essendo riducibile a nessun questo e a nessun quello, dice …l’in-finito” (p. 29). Leopardi ha compreso, sulla scorta di un antiplatonismo essenziale, che il non-essere o in-finito non è mai risolto, come vorrebbe il principio firmissimum di non contraddizione, in un’altra positività, nell’eteron. Infatti, nulla è ciò che sembra essere. Essere e nulla, in questo senso, sono uno nell’altro: anzi, ancor più radicalmente come in termini espliciti dirà Emo, l’essere è il nulla, la presenza, la fatticità è l’altro volto della medaglia del ni-ente. Più precisamente, Donà sostiene, commentando tale snodo teorico, che Leopardi ha ben compreso: “…come sia da ultimo la stessa aporia del non-essere a imporgli di riconoscere che nessun ente è sic et simpliciter “quel che è”. (p. 33). Se il non-essere ha il volto del finito, tutto ciò che “è” dovrà essere originaria espressione dell’impossibilità per l’in-finito di essere se medesimo.

    L’arte in generale, la poesia in particolare, nel recanatese divengono, per questa ragione, un fare-conoscere che allude all’impossibile. A tanto riescono, in quanto la condizione finita del mondo, degli enti, non impedisce loro di presentarli, a differenza di quanto non faccia la ragione filosofico-scientifica moderna, in una sorta di sguardo liberato e distante dalla dimensione apprensiva, che induce il presentarsi del “vago” e dell’ “indeterminato”. Da ciò l’uso, nelle liriche del recanatese, di arcaismi e latinismi atti, sotto il profilo fonetico-sonoro, a ri-chiamare tali dimensioni, metafore del ni-ente. Ma quale stato interiore vive l’artista? Quello della “noia”, risponde Donà con Leopardi. E’ noto che la scuola iconologica warburghiana ha valorizzato la situazione emotiva della melanconia saturnina, presentandola quale conditio sine qua non del poietico. Donà sostiene che la noia è, per il poeta recanatese, ancor più rilevante: essa rende esplicito che il finito, la presenza non è tale, è in-finito. Essa palesa che il nulla è, proprio in quanto nulla è. La noia costringe all’inazione, facendoci gradualmente acquisire una modalità d’operare interiormente, rendendoci “compagni di noi stessi”, indeterminati come l’aria. Per questo, l’universale dolore che stilla sotto ogni cosa, la sventura prometeica sulla quale l’autore si sofferma analiticamente, nella metamorfosi estetica, paradosso essenziale, diviene fonte di piacere. Così Donà: “Tale esperienza…comporta la perfetta indifferenza tra agire e non agire” (p. 103), in antitesi con la vocazione tipica dell’homo platonicus , ed inoltre in quanto esperienza innaturale, la noia ha un tratto aristocratico, è situazione emotiva dell’uomo di spirito, non dell’uomo pervaso dal senso comune. La grandezza di Leopardi sta nel rimarcare la valenza mimetica della produzione estetica: la vera arte è immagine, specchio del reale. E’, per dirla con Emo, icona del nulla, immagine non escludente che si differenzia dalla ratio in quanto atta a rappresentare “concretamente” il vero, è imitazione che si nega. Leopardi riesce, sulla scorta di tale posizione, a farsi latore della dimensione “sistematica” del sapere, in quanto coglie le relazioni armoniche che “legano” la natura, ne rileva il senso oltre le determinazioni indotte dal matematismo: “Bello è il vago, ossia l’indefinito; l’in-differente- ciò il cui apparire è appresso a poco…Si che in relazione ad esso il vero sia sempre e comunque anche falso” (p. 203).

     A questo proposito, l’autore individua la prossimità Leopardi-Nietzsche, svalutando, al contrario, il rapporto tra il recanatese e Schopenhauer, istituito da De Sanctis. Infatti, vero artista è colui che riesce a negare la sua soggettività, facendosi “cosa” rappresentata, rendendosi, in una parola, vita fluente. Il poeta è così, come nel mito, voce della natura. Ma la sua è: “Felicità riducibile all’utopia costituita da un esser-cosa che mai potrà darsi nel contesto di un’esperienza durevole e propriamente soggettiva- trattandosi di una condizione decisamente oltre-umana” (p. 225). E’ solo nella tensione chimerica che muove al conseguimento di tale condizione, che l’uomo, con Emo e Donà, può sperimentare lo stato emotivo, esteriore-interiore, della Serenità, condizione essenziale del vivere in sintonia con la “realtà” delle cose. Di tale possibilità, il filosofo ha trattato in altra sua significativa opera.

     Serenità è energia vitale risuonante nell’animo rallegrato di un essere: “…che rimarrà comunque umano” (227). Si evince, pertanto, da tale conclusione in cosa consista l’atteggiamento anti-cristiano del poeta-filosofo, esso sta nel rifiuto dell’idea della perfettibilità antropologica, costruita sulla tesi dell’uomo imago Dei. E, sulla scorta di ciò, come aveva già notato acutamente Cesare Galimberti, nel poeta di Recanati si dà una capacità di lettura del momento storico-politico in cui gli toccò in sorte di vivere, non riducibile all’esaltazione semplicistica delle sorti progressive del mondo. Esattamente la medesima capacità diagnostico-terapeutica è rintracciabile in Emo. Pertanto, il lettore del Misterio grande di Donà, nelle sue pagine incontrerà stimoli finalizzati ad aprire un rapporto “altro” con la vita, certamente desueti rispetto al senso comune contemporaneo, ma ahimè, desueti in particolare nei confronti di ciò che, ci si perdoni la contraddizione in termini, si mostra come “il senso comune filosofico” dei nostri giorni. Pensieri forti, ossessivamente mirati all’affermazione di un’idea scientemente aporetica, quelli di Leopardi ed Emo, viatico essenziale  e segno tangibile di ogni autentica vocazione filo-sofica. L’unica capace di rispondere alle facili certezze dei sociologismi, degli scientismi, degli schematismi intellettuali della conte

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