Una finestra sulla storia

Il centralismo democratico in salsa italica ovvero il giacobinismo del primo Pci. La nascita

La bolscevizzazione del PCI è strettamente connessa agli avvenimenti russi

di Ivan Buttignon

Il centralismo democratico in salsa italica ovvero il giacobinismo del primo Pci. La nascita

Nel congresso socialista svolto a Livorno nel gennaio 1921 si consacrano decisioni già prese. Le correnti sono perfettamente definite. A destra c’è “Concentrazione”, al centro i massimalisti, a sinistra i comunisti. I primi presentano la mozione già elaborata a Reggio Emilia in ottobre; la frazione comunista quella preparata a Imola. Il 21 mattina si notificano i risultati. I gradualismi di “Concentrazione” ottengono 14.695 voti, i massimalisti 98.028 e i comunisti 58.783[1]. La destra e i comunisti ne escono con le ossa rotte. Entrambi, ma soprattutto i secondi, speravano di conquistare la maggioranza dei voti. I massimalisti, rivoluzionari ma realisti sul piano politico, trionfano.

I risultati stordiscono le minoranze. I delegati comunisti lasciano il teatro Goldoni e si riuniscono al teatro San Marco. Lì votano l’ordine del giorno di Fortichiari che dichiara costituito il Partito comunista d’Italia, sezione dell’Internazionale comunista[2].

Viene così eletto il Comitato centrale, composto da Bordiga, Terracini, Bombacci, Greco, Gramsci, Repossi, Fortichiari, Parodi, Tarsia, Marabini, Misiano, Gennari. Nel ’29 si aggiungerà Polano, dirigente della gioventù socialista, che fonda la Federazione giovanile comunista italiana.

Il 1921 è l’anno del decollo della nuova politica economica di Lenin. Il PCI considera la NEP un nuovo corso transitorio. Gli espedienti tendenzialmente e molto parzialmente “liberali” adottati dall’Unione sovietica sono considerati per quelli che sono: una diluizione dell’assetto comunista. Sarebbero anche peggio se a concepirli non fosse l’indiscutibile e indiscusso Lenin. Il capo è geniale e infallibile in tutto ciò che dice e che fa. Anche se “liberalizza” alcuni settori economici. 

L'ascendente bolscevico.

La bolscevizzazione del PCI è strettamente connessa agli avvenimenti russi[3]. Nell’ottobre del 1924 Trotsky pubblica il libro Le lezioni d’ottobre nel quale denuncia il pericolo di un opportunismo di destra nel Comintern, collegandolo con le posizioni assunte da Zinoviev e Kamenev nel 1917. La corrente di Trotsky si differenzia dal resto del PCUS autoproclamandosi “di sinistra”. Il 17 gennaio 1925 il Comitato centrale del partito bolscevico e la Commissione centrale di controllo in seduta plenaria riprovano l’atteggiamento di Trotsky. Già nell’aprile successivo viene allontanato dal posto di commissario alla Guerra.

I riflessi delle tensioni nel PCUS si avvertono anche nell’Internazionale, dove fino alla primavera del 1925 è il “trotskismo”, cioè la tendenza a espandere la rivoluzione bolscevica anche agli altri Paesi, la dottrina più discussa. Contro questa tesi, Stalin e poi Bucharin elaborano, a partire dal 1925 la concezione del “Socialismo in un solo Paese”. Il X Congresso proibisce le frazioni. Ogni atteggiamento contrario alla maggioranza è frazionistico e come tale va colpito.

La battaglia per la bolscevizzazione condotta da Gramsci è la battaglia per l’affermazione dei principi di infallibilità del partito e dell’Internazionale. Chi non è convinto di ciò è fuori dall’organizzazione.

Di fatto, però, dal ’25 la sinistra italiana si batte per il libero esame delle questioni e per il sereno confronto delle tesi. In modo diametralmente opposto alla duplice tendenza della pressione benevola e della sopraffazione aperta[4].

Tuttavia, la liquidazione di Bordiga è ben che avviata. Ci pensa Gramsci con due metodi. Stacca da lui i suoi collaboratori, usando l’argomento “schierarsi con Bordiga va contro l’Internazionale”. E poi adotta provvedimenti disciplinari contro chi non si allinea.

Per sconfiggere la frazione bordighista il partito si affida all’appoggio dell’Internazionale, al controllo dell’apparato, l’acquisizione di elementi già della sinistra, tra cui tutto il gruppo dirigente della Federazione giovanile[5]. La lotta è capillare e totale. Va vinta a ogni costo.

Per quanto preferisca l’autonomia da Mosca, l’establishment marxista italiano escogita metodi e misure diverse solo in apparenza. Non basta: per realizzarle chiede il supporto di Mamma Russia, irrobustendo così la dipendenza anche tecnica (quindi non solo politica) con questa. È un legame che accompagnerà il partito durante tutto il periodo della clandestinità e del secondo dopoguerra e sarà infranto solo dall’ascesa alla Segreteria di Enrico Berlinguer.



[1]G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, Il Formichiere, Milano, 1976, pp. 48-49.

[2]Questa denominazione viene mantenuta fino al 15 maggio 1943 quando si scioglie la III Internazionale. A quel punto il partito assume la denominazione Partito comunista italiano. Il piglio “nazionale” della nuova veste terminologica ha un senso ben preciso, che vedremo nel dettaglio. Di seguito faremo riferimento alla sigla PCI.

[3]G. Galli, Storia del Partito Comunista Italiano, cit., pp. 105-106.

[4]P. Robotti, G. Germanetto, Trent’anni di lotte dei comunisti italiani 1921-51, Edizioni di Cultura Sociale, Roma, 1952, pp. 351-363.

[5]Ibidem, p. 110.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da piccolo da Chioggia il 19/03/2014 12:11:06

    mi sa che i bolscevichi di Mosca devono aver fatto delle facce molto perplesse se non disgustate quando gettavano rubli (che affamavano l'obbediente mugik) destinati ai compagni italiani dei quali credo avessero molto ben in chiaro quanto valessero... il mio quesito filosofico resta ancora insoluto: è vero che Stalin ha espresso un singolare rammarico quando saputo della fine del Duce? pare abbia detto: "è morto un grande rivoluzionario il cui demerito è stato non mettere al muro i suoi avversari" chi mi sa dare l'indicazione precisa della fonte?

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