La determinazione è un escludersi?

Umberto Bianchi, Il fascino discreto dell’Occidente, La Carmelina, 2014

Resta che il fascino discreto, quasi invocazione a futura memoria e come invito (quanto ammiccante?) s’una triste lapide mortuaria...

di Sandro Giovannini

Umberto Bianchi,  Il fascino discreto dell’Occidente, La Carmelina, 2014

Sembrerebbe questo il procedere dello svelamento di Maja… Sembrerebbe questo se noi appercepissimo la realtà dell’essenza tramite (una necessaria) apparenza cangiante, e quindi questa realtà dietro (sopra e sotto) il velo, come qualcosa cioè che rimandi (solo) ad un principio primo, indiscutibile ed unico. Millenni di diatribe sul principio primo, sono comunque indubitabilmente l’ombra della trasparenza metafisica e/o ontologica, senza le quali ragioni, l’uomo, non avrebbe usato del dono di Prometeo e neanche sfruttato la sua pervicace adattabilità ai più diversi climi, geografie, razze, “fisiologie della civiltà”, come con sagacia, indica Umberto Bianchi.

Questa mia entrata a “piedi uniti” dentro la concatenata logica del libro è favorita dall’indicazione basale delle “Due vie alla differenza”, uno dei primi paragrafi del testo di Bianchi, ove s’imposta appunto la differenza che sembra apparire macroscopica tra Oriente ed Occidente, all’interno di uno statuto che è già di per sé - poi - differenziato, in quanto sostanzialmente incentrato sulla via indoeuropea.

Poi tra Eraclito e Parmenide sembrerebbe anche qui porsi, e lo ribadisce ottimamente Bianchi, un’alternanza di esclusioni, ab aeterno e ad aeternum, che non riescono a porre una determinazione se non tramite quegli scompensi produttivi, quei tagli ontologici, quei baratri ideologici, che costituiranno la storia propulsiva e voraginosa dell’Occidente, prima greco-romano, poi cristiano e poi moderno. Ma questa esclusione, di volta in volta alternata e quasi non mai approfondita, ovvero non riportata (se non ermeticamente, in sottotraccia) alla possibile lettura di un “divenire entro l’essere”, marca così bene la determinazione dell’Occidente e la sua forza differenziante, tanto più affermata quanto globalmente meno consapevole e quindi contro e sopra la stessa propria vantatissima ybris dialettica, rappresentata simpaticamente dal Socrate venditore imaginale della fiammante e costosa automobile a cui segue un preoccupatissimo Platone-Diocleziano che cerca disperatamente di conciliare, in una sgargiante camicia di Nesso, l’approfondimento causidicamente vertiginoso con l’astraente purezza apollinea del mondo delle idee. Anche perché nella fuga per la tangente sofistica… (il sofista è l’unico a vincere - chi? il differente? lo straniero? - alla fine, come le macchinette del casinò…) e per questo Heidegger, il posatore di trappole, come lo definì ad un convegno Jünger… ne ha fatto uno dei suoi marburghesi più riusciti…   Tutto ed il contrario di tutto viene rimesso nel gioco tragico ed irridente che riuscirà (da sempre e per sempre) a distruggere l’unicità della verità se non come costruzione comparativa, forma smarcante, creazione dirimente. La funzione quindi riacquisisce un di più di verità fornitale dalla vettorialità propositiva, prometeica, progettuale, “ideologica”. La capacità di creare, alla Stevens, per intenderci…  La funzione, lavorando carsicamente e lungo tutto l’Antico, con direttrici sia patenti che latenti, quindi sia sul versante della razionalizzazione dialettica che in quello dell’emanazionismo misterico, sia nella versione del neoplatonismo che in quella della gnosi, s’inabissa nel lato perdente e si ufficializza nel lato vincente, come ben lega Bianchi, anche al prevalere dell’Altro Pensiero, ovvero la reductio ad unum, vincente in quanto essenzialmente lineare e finalisticamente pratica, evolvendosi in tutto il tardo antico ed in esso nell’hodiernus modo (nel modernus), come ci ha insegnato Freund, già ben attestato dal secolo del Papa Gelasio al tardissimo medioevo…

Non posso certo perseguire tutti i passaggi di Bianchi, attraverso le ottime stazioni di posta che il corriere metafisico, spesso  (non da lui - ma in sé o forse in re) vestito magari della sola casacca d’araldo, tocca lasciando al volo il cavallo stanco e montando quello fresco. Resta che ha avuto coraggio, Bianchi, a non farci la lezione dell’analisi tra essenza e funzione, un po’ come ho cercato di fare, io spudoratamente invece, in queste poche righe, ed a farci quella della sintesi per paragrafi, densi, privi di orpelli ed assolutamente significativi, come quello, ad esempio, ove ha colto il passaggio epocale, la rottura epistemologica, (definitiva - direbbe il solito mentalista), che (in)segna in Campo dei Fiori, l’icona dello scultore Ferrari.

L’Occidente di Bianchi è quello nostro e quello di tutti gli occidentali, una volta che sia abbia la minima capacità di guardare le cose un poco dall’alto, (la sua sintesi, il suo lungo periodo, tanto irriso dagli specialisti sfibrati…), avendo sulle spalle i pesi forti delle esperienze che ciascuno di noi, giocoforza, si è trovato a trascinare, come un enorme sacco nero.

Resta che il fascino discreto, quasi invocazione a futura memoria e come invito (quanto ammiccante?) s’una triste lapide mortuaria, mi rammenta quel passo di Noica che dice: “…in tutto questo c’è l’Europa, le cose ci appaiono semplicemente come le briciole di un banchetto… Gli ideali di liberazione dei popoli di colore sono semplici eco del pathos europeo della libertà, l’umanesimo orientale è una mera replica, il loro Materialismo è una tecnica presa in prestito; e questo stesso comunismo… che misero rimasuglio, rispetto al festino di Hegel e della cultura occidentale! E se tutti questi sono i resti, il cuore dov’è?...”

…gigantium humeris insidentes…

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