Editoriale

Il fallimento dei sindaci e dei governatori

Sembrava che la rivoluzione arancione passasse attraverso loro, alla prova dei fatti perdono tutti consenso in maniera drammatica

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

uelli di “Micromega” , un po’ come degli amanti traditi, avevano denunciato, qualche mese fa, la  fine del   della  “rivoluzione arancione”,  l’onda  elettorale che,  a partire dal  2011,  aveva premiato alcuni candidati sindaci “progressisti”  (Giuliano Pisapia, a Milano, Luigi De Magistris, a Napoli, Marco Doria, a Genova) visti come l’ espressione dello scontento del popolo di sinistra verso gli apparati del Pd e trasformati nei vessilliferi di un nuovo  modo di governare e di fare politica.

La fotografia degli inviati della rivista diretta da Paolo Flores d’Arcais  ha offerto   un’ immagine impietosa della “rivoluzione dei sindaci”:  Pisapia    chiuso a Palazzo Marino, senza  rapporti coi cittadini ed in continuità amministrativa  con le precedenti amministrazioni; De Magistris dipinto come un esempio di  disorganizzazione, travolto dagli scandaletti familiari, lontano dall’idea di democrazia partecipativa su cui aveva costruito il suo successo;  il  genovese Doria scialbo e privo di “una visione globale".

La  “crepa” dei sindaci “progressisti”, denunciata a suo tempo,  sembra ora dilagare. Diventa tendenza,  come ha fotografato  l’ indagine del “Governance Poll”, la classifica stilata, come ogni anno, da IPR Marketing per “Il Sole 24 Ore”, che fissa il consenso nei confronti dei sindaci e dei presidenti di regione, espressi da un campione di ottocento elettori, per ogni città, disaggregati per sesso, età e residenza.

 Al di là del gioco, un postucchevole, su chi scende-chi sale, il dato più rilevante è il crollo generale di credibilità degli  amministratori locali e degli stessi istituti di rappresentanza amministrativa.

Secondo la graduatoria ben due sindaci su tre hanno fatto registrare una flessione del gradimento, e tranne rare eccezioni, per i pochi primi cittadini che vedono crescere le proprie performance si tratta di incrementi contenuti nellordine di qualche punto percentuale. Il 65 per cento dei sindaci perde consenso, percentuale che arriva al 76 per cento per i governatori, segno di una sfiducia generalizzata, provocata da un oggettivo rifiuto contro un sistema verso il quale i cittadini avevano manifestato grandi aspettative, evidentemente mal riposte.

C è poi anche una crisi strutturale, legata ai modelli di rappresentanza, su cui Stefano Folli (La periferia delle virtù smarrite,  «Il Sole 24 Ore», 13 gennaio 2014)  mette laccento, denunciando la perdita di credibilità dellistituto regionale, immagine malinconica di piccolo cabotaggio amministrativo, costoso e inefficiente: «Lasciamo stare – scrive Folli – la tentacolare e farraginosa macchina del cosiddetto federalismo, una delle imprese più fallimentari del ventennio appena trascorso. Nel rapporto costo/benefici le poche novità positive introdotte da queste faticose riforme sono state  pagate a caro prezzo dai cittadini; ma nella maggior parte dei casi hanno condotto solo a spese crescenti senza modificare in meglio la qualità della vita».

Evidentemente, visti i risultati del sondaggio, il problema è duplice: di azione politica (e quindi di classi dirigenti) ed istituzionale. Non basta perciò la stabilità, offerta dai sistemi elettorali, a garantire il buon governo nelle amministrazioni locali. Né, di per se stesso, è sufficiente lauspicato decentramento ad alzare la qualità degli interventi pubblici e a migliorare il rapporto con i cittadini. Neppure le sbandierate primarie del centrosinistra paiono reggere la prova, vista linsipienza di certi eletti.

Diciamo, in estrema sintesi, che  gli enti locali pagano un generale discredito istituzionale, frutto della scarsa credibilità delle classi dirigenti, della debolezza dei sistemi rappresentativi, che, per quanto maggioritari e votati alla stabilità, non favoriscono il rapporto tra eletti ed elettori, di un generale costo di sistema, prodotto da inefficienze, corruzione, piccolo cabotaggio amministrativo.

Non è solo un problema di risorse. Anche qui, nelle autonomie locali, cè bisogno di discontinuità. Non tanto vagamente  generazionale (Matteo Renzi, nella sua veste di Sindaco di Firenze, perde, rispetto al suo ingresso a Palazzo Vecchio, 4,5 punti percentuali)  quanto di strategie, di priorità, di strumenti di selezione/partecipazione politica. Anche qui, problema di metodo e di contenuti, sui crinali di una crisi di sistema che ormai pare dilagante, dal governo centrale alla periferia del Paese.

                                                 

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