La finestra sulla storia

A proposito di crisi di valori. L’eterno dilemma dell’ «uomo nuovo»

Dal Risorgimento al fascismo il mito fondativo della virità

di Ivan Buttignon

A proposito di crisi di valori. L’eterno dilemma dell’ «uomo nuovo»

Origine della concezione dell’ “italiano nuovo”

Se la nascita “ufficiale”, o per meglio dire, istituzionale della rappresentazione teorica dell’“italiano nuovo” fu sancita da Mussolini, quella ufficiosa ha origine nel Risorgimento[i]. Questo mito, anche quando si richiamava espressamente alla romanità, non aveva nulla di tradizionalista, ma era, al contrario, prettamente modernista. I patrioti del Risorgimento non ebbero soltanto lo scopo di realizzare l’unità e l’indipendenza dell’Italia ma di creare le condizioni per accelerare la modernizzazione della società, della mentalità, dei costumi. La stessa creazione dello stato unitario era stata concepita dai patrioti del risorgimento in funzione della emancipazione degli italiani dagli abiti mentali e dai costumi prodotti da secoli di arretratezza e asservimento, per trasformarli in cittadini moderni di uno stato libero e sovrano. Questo era il vero significato della nota formula “Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani”[ii].

All’inizio del Novecento, il mito della rigenerazione nazionale venne ripreso dai movimenti che sognavano una più grande Italia, in grado di avere un posto di primo piano nella costruzione della civiltà moderna, e per questo si ribellavano contro l’”Italietta” di Giolitti. Il movimento nazionalista imperialista, il gruppo degli intellettuali della “Voce”, il Futurismo, le varie correnti del radicalismo nazionale, condivisero il mito della rigenerazione e lo trasformarono in un progetto di rivoluzione totale, spirituale, culturale e politica, per abbattere il regime liberale, considerato una povera cosa rispetto agli ideali di grandezza e di modernità vagheggiati dai patrioti del Risorgimento[iii]. Questi movimenti, inoltre, svilupparono il mito dell’”italiano nuovo” inserendolo nel più ampio mito dell’”uomo nuovo”, che aveva avuto un notevole sviluppo nel corso dell’Ottocento e all’alba del Novecento, alimentandosi con gli ideali di una umanità futura diffusi dalle nuove religioni laiche, dalle profezie secolari di Marx e Nietzsche e dai movimenti artistici e culturali dell’avanguardia modernista.

Il movimento nazionalista imperialista voleva rigenerare gli italiani per cementare l’unità fisica e morale della nazione. Il suo ideale dell’”italiano nuovo” era il maschio virile e guerriero, allevato nel culto delle glorie passate ma pronto ad affrontare le sfide della modernità, vista come epoca bellicosa e imperialista. Anche i futuristi volevano creare un italiano virile, aggressivo, violento, spregiudicato, amante della lotta e della conquista, ma totalmente liberato dal culto della tradizione e del passato, tutto proiettato verso il futuro, libero cittadino di uno stato ridotto a funzioni minime.

I giovani intellettuali della rivista “La Voce” volevano essere gli apostoli di una riforma intellettuale e morale degli italiani fondata sulla conciliazione fra tradizione e modernità, sul primato della coscienza umana rispetto alla coscienza nazionale, sul senso dello stato ma non sul culto della forza e della conquista[iv].

Nel fascismo non ci fu un modello unico e definitivo, quale poteva essere, per esempio, l’”uomo nuovo” del nazionalsocialismo, definito una volta per tutte secondo il modello dell’ariano germanico, che doveva essere preservato, nella sua integrità di sangue, dal pericolo della contaminazione e della degenerazione. Nel fascismo il mito dell’”uomo nuovo” ebbe una evoluzione e varie rappresentazioni, corrispondenti a modi diversi di concepire sia il mito che i metodi e i tempi per attuare la rivoluzione antropologica. Questa varietà non era dovuta alla incoerenza del progetto di rivoluzione antropologica, ma alla diversità delle situazioni in cui il mito fu elaborato e alla varietà delle versioni che ne diedero coloro i quali furono maggiormente coinvolti, a causa della loro posizione ideologica e istituzionale, nell’attuazione della rivoluzione antropologica[v]. La politica di massa del regime, la sua pedagogia totalitaria, la propaganda, il monopolio educativo delle nuove generazioni, la mania per l’organizzazione capillare in cui inquadrare gli italiani, come anche i riti, le parate, i simboli, lo stile di comportamento, e poi ancora il razzismo, l’antisemitismo, la riforma del costume, la campagna antiborghese: tutto questo era concepito ed era messo in atto dal Duce per realizzare la rigenerazione degli italiani[vi].

L’”uomo nuovo” come ricetta totalitaristica

Nel “rifacimento del carattere degli italiani” furono coinvolti, simultaneamente, il partito, lo stato, la cultura e tutte le organizzazioni del regime, dai sindacati all’Opera nazionale dopolavoro[vii].

Possiamo dire che tutta la politica di massa del regime fascista, in tutti i suoi aspetti, dall’istruzione all’organizzazione, dal lavoro al tempo libero, fu concepita e attuata come una costante attività di pedagogia totalitaria, applicata agli italiani fin dalla nascita. Coerentemente con questa concezione, il fascismo impose l’indottrinamento delle masse e delle nuove generazioni[viii].

L’elaborazione del modello dell’”italiano nuovo”, negli anni del regime, fu in massima parte conseguenza della concezione totalitaria della politica, che fornì l’idea fondamentale e i tratti essenziali comuni a tutte le varie versioni del mito fascista dell’”uomo nuovo”. Anche la più nota versione dell’”italiano nuovo”, quella modellata sul prototipo del legionario romano, va intesa non come restaurazione, ma come creazione di un “italiano nuovo” modellato secondo una concezione modernista e non tradizionalista.

L’”uomo nuovo”, accanto all’archetipo del legionario romano, non corrisponde a quest’ultimo, bensì rappresenta il “Romano della modernità”[ix], artefice dello sviluppo e baluardo della costruzione di una nuova Italia.

Il fascismo utilizzava l’archetipo del Romano antico come un mito di emulazione e di propaganda, che fu in vigore soprattutto dopo la conquista dell’impero, ma né Mussolini né gli altri artefici della rivoluzione antropologica pensavano di restaurare nell’”italiano nuovo” l’antico romano, bensì volevano creare, per così dire, i “Romani della modernità”, una razza di uomini capaci di realizzare nel mondo moderno, come i romani avevano fatto nel mondo antico[x], una civiltà imperiale fondata sulla organizzazione totalitaria dello stato[xi].



[i] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 242.

[ii] E. Gentile, La via italiana al totalitarismo. Il partito e lo Stato nel regime fascista, cit., p. 97.

[iii] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., p. 243.

[iv] Ibidem, p. 244.

[v] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., p. 261.

[vi] Ibidem, pp. 259-260.

[vii] Pnf, Il cittadino soldato, Libreria dello Stato, Roma, 1936, p. 23.

[viii] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., p. 252.

[ix] E. Gentile, Fascismo di pietra, Laterza, Roma-Bari, 2007, p. 215.

[x] Dal punto di vista semiotico, sembrerebbe si tratti di uso e non di interpretazione, circa il sistema simbolico della romanità da parte del regime. Riprenderemo questo concetto tra breve e più compiutamente. U. Eco, Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano, 1979, pp. 59-60.

[xi] E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, cit., p. 254.

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