Il Novecento e la Teologia politica

Oltre le politiche d’ordine e di emancipazione

Il tema affrontato in termini critici da Francesco Saverio Festa nel libro Un’altra teologia politica?

di Giovanni Sessa

Oltre le politiche d’ordine e di emancipazione

La copertina del libro

 La “teologia politica” è stata indubbiamente il fulcro vitale e lo snodo teorico, per molti aspetti irrisolto, attorno al quale si è sviluppato il dibattito filosofico-politico del Novecento. Più in particolare dal lontano 1922, anno a cui si può far risalire il confronto-scontro tra due ben individuate scuole di pensiero: quella facente capo a Carl Schmitt e ai suoi principali discepoli e quella formatasi attorno a Erik Peterson. Il tema viene ora affrontato in termini critici da Francesco Saverio Festa, filosofo politico dell’Università di Salerno, in un volume agile e affabulatorio, sotto il profilo della tecnica comunicativa, ma organico e complesso dal punto di vista dei contenuti. Si tratta di Un’altra teologia politica? da poco nelle librerie per i tipi della casa editrice Mimesis (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it 02/24416383, euro 16,00).

   Il testo ci pare davvero degno di segnalazione, non solo in quanto il tema che affronta risulta   dirimente per la comprensione del contemporaneo e, più in particolare, per la categoria del politico, ma anche perché consente al lettore di maturare una visione chiara e storicamente contestualizzata del sorgere del “problema” teologico-politico stesso. Infatti, l’incipit del volume rinvia ai  Morgenblätter, ai “fogli del mattino” di  straussiana memoria, identificati da Festa nelle Epistole paoline, luogo d’elezione del cristianesimo e con esso delle problematiche  che qui interessano. Non aveva forse Nietzsche sostenuto, con la consueta lungimiranza dei suoi giudizi, che in Paolo va visto il vero fondatore del  cristianesimo? Infatti, mentre i culti pre-cristiani erano caratterizzati da una divinizzazione dell’ordine della natura, il cristianesimo tende ad imporre un Dio-persona che non può essere rinvenuto nel cosmo. L’insegnamento di Paolo è mirato a: “…ripensare il cristianesimo come una religione anti-natura, da cui poter pensare una possibilità di redenzione della stessa natura” (p. 12). Inoltre, Paolo di Tarso eredita dalla tradizione ebraica lo schema dualista, ma supera la distinzione tra ebrei e gentili proiettandolo su scala planetaria, ecumenica. In questo quadro concettuale il cristiano deve vivere nelle strutture del mondo, come se non vi vivesse, deve distinguere la sottomissione al potere terreno, dall’obbedienzatotale riservata solo a Dio. La politica consegue senso solo all’interno della dimensione escatologica del cristianesimo: insomma, in Paolo è evidente la contrapposizione tra necessità del potere e sua negazione profetico-escatologica, che sancisce la secolarizzazione essere consustanziale alla buona novella. Alla terra promessa, la predicazione paolina sostituisce la redenzione. Quello cristiano è un “nuovo popolo di Dio”, il cui Patto è ecumenico, fondato sull’idea “indistinta” di umanità. Celso, non casualmente, riterrà tale idea sinonimo di aperta ribellione.

    Il populus mundi vive nella comunità cristiana, il cui compito è quello di conquistare dall’interno   l’impero, al fine di trasformarlo nel profondo. Pur inserendosi nel medesimo contesto paolino, Agostino: “…esprime la riserva permanente del cristiano di fronte ad ogni sorta di “teologizzazione” delle istituzioni politiche e sociali” (p. 25). Ciò spiega le polemiche antidonatiste ed antipelagiane del filosofo. Resta il fatto che il nuovo contesto storico in cui egli vive, rispetto all’età di Paolo, impone un rapporto altro con l’autorità imperiale. La Chiesa di Roma diventa, in tal prospettiva, l’erede e del popolo di Dio e dello Stato imperiale. Si tratta delet et tra la chiesa e l’impero, voluto da Gelasio I, ma: “…l’ambiguità di tale teoria delle due potestà ha generato una secolarizzazione del dominio mondano” (p.26). Agostino, pur difendendo l’obbedienza a Dio, tenta di dimostrare che con l’impero riformato da Costantino e Teodosio il cristiano può convivere. Da allora, l’interrogazione filosofica occidentale ha rinviato a tre tipologie fondamentali di teologia politica: 1) Il regno senza la chiesa, il cesaropapismo di Eusebio di Cesarea; 2) Il regno e la chiesa come due manifestazioni autonome dello stesso ordine, il tipo teorico gelasiano; 3) La chiesa senza il regno, la radicale distinzione tra città di Dio e la città terrena, che si intrecciano nella storia mondana.

   Se l’asse Paolo-Agostino mostra il sorgere della problematica teologico politica, è la riflessione critica sull’elaborazione teorica di questo concetto nel Novecento a costituire la parte più significativa del libro di Festa. Infatti, l’autore chiarisce in modo persuasivo e documentato come il tentativo teorico messo in atto da Erik Peterson, mirato a mostrare la distanza abissale del cristianesimo da ogni divinizzazione del potere, sia fondato sul carattere “peregrinante” del fedele: “…giustificato dall’idea che l’ordine divino debba ancora affermarsi, non è compiuto, un’eternità in movimento che permette alla chiesa di non confondersi mai nel mondo, restando auctoritas” (p. 58). In particolare, sarebbe secondo Peterson il dogma ortodosso della Trinità a preservare il cristianesimo dallo scadere in ideologia di un ordinamento politico dato. A queste posizioni, Schmitt obietterà l’esistenza di un rapporto irrinunciabile tra la sfera politica e quella teologica, in quanto il tedesco postula un’originaria “apertura alla trascendenza” in ogni sistema politico. Essa rappresenterebbe la legittimazione veritativa del sistema stesso. Non è casuale che, secondo il politologo, la Stato laico liberale non sarebbe assolutamente in grado di auto legittimarsi, e da ciò discenderebbero le insufficienze della politica nella contemporaneità. La qual cosa indusse lo studioso ad assumere quale paradigma, l’istituzione ecclesiastica cattolica, cosa che, a parere di Festa, renderebbe Schmitt il più coerente teologo politico della Konservative Revolution. In fondo, come riconosciuto da Tronti, i due modelli rivoluzionari del Novecento sono quello  emancipazionista inaugurato dalla Rivoluzione leninista, con tutte le sue successive variabili, e quello della Konservative Revolution, entrambi espressioni teologico-politiche. Il modello della prima è rintracciabile nel regnum dei münsteriano, che ha indicato agli uomini un compito operativo per la trasformazione dell’esistente.

   Infine, Metz e Moltmann hanno tentato di porre le basi di una “nuova teologia politica” caratterizzata dal possibile incontro tra libertà umana ed escatologia. In realtà, il loro tentativo si è storicamente  realizzato nei termini di una rivitalizzazione delle posizioni d’ordine, schmittiane, tese a  chiarire come il tratto teologico sia implicito in ogni forma politica manifestatasi in Occidente.  Nel mondo contemporaneo è particolarmente evidente lo iato tra promessa escatologica e il suo realizzarsi nella storia, esemplarmente descritto da Sergio Quinzio come “sconfitta di Dio”. A questo punto, il titolo del libro, Un’altra teologia politica? assume il valore di segnavia per una ricerca da intraprendere.  L’autore pare considerare positivamente, proprio in quest’ottica, alcune indicazioni emergenti dalle opere di Nancy. Questi ha chiarito come l’idea di secolarizzazione riposi su un’illusione: “…la cultura del secolo non assume che superficialmente certe apparenze della cultura dell’aldilà. In profondità essa è di un altro ordine” (p. 97). In effetti, secondo il pensatore francese, il problema della giustizia non può che aprire alla questione della trascendenza ed in forza di ciò, uno dei compiti essenziali del pensiero contemporaneo è relativo alla reinvenzione della laicità. Una delle acquisizioni più dibattute del sistema di Nancy riguarda il senso della storia. Esso coincide con l’intera storia del Dio d’Occidente, lungo dispiegarsi dell’ateismo. La secolarizzazione è, pertanto, consustanziale al cristianesimo. Per rispondere ai bisogni dell’uomo, per legittimare il politico nel mondo della liquidità globale, è necessario, senza negare il cristianesimo e senza voler tornare alla sua integrità, trovare la risorsasottesa al cristianesimo stesso in grado di condurci oltre le categorie prodotte dalle teologie politiche propriamente dette. In cosa consiste la risorsa, il filosofo francese non lo rivela, mentre l’autore di questo stimolante testo, sia pure in termini dubitativi, pensa alla “riserva escatologica” quale possibile motore di una nuova ri-partenza teoretica e pratica.

     La conclusione cui Festa perviene è aperta, indica un percorso ancora in fieri. Ciò è il risultato dalla complessa e ossimorica strutturazione, sia storica che teoretica, delle problematiche teologico-politiche. A proposito di ossimoricità, qualche significativa intuizione nel senso del superamento degli opposti messi in campo dalla questione teologico-politica, ci pare venire da quegli esponenti, citati da Festa come il volto “secondario”, o comunque meno coerente rispetto alla impostazione schmittiana, della Konservative Revolution, quali Jünger e von Hofmannsthal. Essi infatti, a differenza di Schmitt, non hanno mai guardato al modello ecclesiale come paradigma di ammodernamento conservatore. Probabilmente, l’esegesi critica del loro pensiero, consentirà di   individuare la risorsa vigente da sempre nella storia d’Europa e che, a parere di chi scrive, precede l’avvento della buona novella. La tradizione come vigenza è il luogo del sempre possibile Nuovo Inizio, le cui coordinate geografico-politiche e geo-filosofiche sono al di là delle politiche d’ordine e  delle politiche emancipazioniste.

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