L’italia fuori dalla crisi? I numeri dicono altro

Dal governo arrivano dichiarazioni ottimistiche per il prossimo anno, ma le cose non stanno proprio come dicono

Nel confronto internazionale le condizioni dell’attività di impresa in Italia appaiono sfavorevoli

di Laerte Failli

Dal governo arrivano dichiarazioni ottimistiche per il prossimo anno, ma le cose non stanno proprio come dicono

L’Italia si è rimessa in moto. Così ci capita di leggere nella testata di uno dei più importanti quotidiani nazionali.

Ma rileggendo bene… l’Italia si è rimessa in moto ? Se leggiamo attentamente le parole del premier Letta ci accorgiamo che si tratta di speranze e intenti : “Siamo a un passo dall’inversione di rotta e dall’uscita dalla crisi più drammatica e buia che le attuali generazioni abbiano mai vissuto. Il nostro impegno è quello di cogliere fino in fondo questi segnali, di mettercela davvero tutta affinché il possibile diventi realtà”.

Come volevasi dimostrare.. però effettivamente dei segnali positivi ci sono !

0,2% è la flessione del Pil nel secondo trimestre rispetto al primo. È l’ottavo calo consecutivo.

0,3% è l’aumento registrato a giugno rispetto a maggio della produzione industriale .

7,4% è l’aumento a giugno rispetto a un anno prima della produzione industriale nel settore auto.

30,3% è la diminuzione delle ore di cassa integrazione a luglio rispetto allo stesso mese del 2012

Prudente ottimismo percepito e confermato anche dalle parole del capo economista dell’OCSE Pier Carlo Padoan, secondo il quale l’economia dei paesi avanzati sta uscendo dalla grande recessione e i Paesi emergenti continuano a crescere, seppur più lentamente. L’Italia dovrà dunque agganciarsi a questo treno della ripresa, ma per fare ciò serve carburante; ovvero aiutare le imprese che esportano; mobilitare tutte le risorse possibili per restituire i debiti della pubblica amministrazione; far arrivare alle imprese tutto il credito necessario per catturare le nuove opportunità; aggiustare il quadro del mercato del lavoro per fare in modo che la crescita delle imprese si traduca rapidamente in nuova occupazione.

In che situazione ci troviamo ?.. ma soprattutto come siamo finiti così ?  domanda non banale.. spesso il problema e la soluzione sono dettati dal cammino percorso.

Nel confronto internazionale le condizioni dell’attività di impresa in Italia appaiono sfavorevoli.

Esistono diverse arretratezze e problematiche: l’eccesso di oneri burocratici, la lunghezza e l’incertezza dell’esito delle procedure amministrative, la lentezza della giustizia civile, l’elevata pressione fiscale, la diffusione della corruzione e la presenza della criminalità organizzata, anche al di fuori delle aree di tradizionale insediamento, rappresentano gli aspetti di maggiore criticità del contesto istituzionale all’interno del quale operano le nostre imprese.

Numerose sono le difficoltà che le imprese italiane, in particolare quelle attive nel settore dell’industria, incontrano nei rapporti con la pubblica amministrazione: considerando le procedure richieste a un’impresa per ottenere un permesso di costruzione emerge che i tempi in Italia sono di gran lunga superiori a quelli dei principali paesi europei; analogamente, se consideriamo le procedure doganali per l’esportazione di beni, un aspetto di grande importanza per il settore industriale, i tempi necessari per la conclusione dell’iter burocratico risultano in Italia più lunghi di quelli dei principali paesi europei.

Riguardo alla giustizia civile, i tempi necessari per la risoluzione di una controversia tra imprese sono stimati in Italia pari a quasi quattro volte quelli della Francia e a tre volte quelli della Germania e del Regno Unito.

La pressione fiscale costituisce un’altra “zavorra”per l’attività imprenditoriale italiana, superiore di 2,5 punti percentuali rispetto alla media europea. Oltre al livello penalizzante della tassazione sul lavoro e il cuneo fiscale (differenza tra l'onere del costo del lavoro e il reddito effettivo percepito dal prestatore d'opera o lavoratore) risulta di oltre 5 punti percentuali più alto di quello medio dell’area dell’euro. Infine secondo i dati elaborati da Transparency International, il livello di corruzione percepito in Italia è superiore a quello di tutti i paesi dell’Unione Europea con l’eccezione di Bulgaria, Grecia e Romania. Un primato davvero poco invidiabile, ma purtroppo non certo sorprendente.

Questi ostacoli di natura istituzionale e ambientale si ripercuotono negativamente sulla competitività delle imprese, sul processo di accumulazione e in ultima istanza sulle prospettive di sviluppo dell’intero sistema economico.

La rappresentazione grafica mostra gli andamenti dal 1993 al 2011 della produttività del lavoro, misurata dal PIL per ora lavorata, e della produttività totale dei fattori (PTF), stimate dall’OCSE per Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti.

I due grafici sono eloquenti: l’Italia si mantiene sostanzialmente in linea con gli altri paesi fino al 1997-98; da quel momento imbocca un sentiero solitario di stagnazione. Tra il 1998 e il 2011 il PIL per ora lavorata è cresciuto di oltre il 20 per cento in Giappone, nel Regno Unito e negli Stati Uniti, del 17 per cento in Francia e Germania, solo del 3,6 per cento in Italia.

Il saldo delle partite correnti della bilancia dei pagamenti italiana è andato via via deteriorandosi dopo la metà degli anni novanta, quando era divenuto positivo grazie alla forte svalutazione della lira. Dal sostanziale pareggio realizzato nel 2000, l’anno successivo all’introduzione dell’euro, esso si è poi collocato su valori negativi sempre più crescenti, fino a -3,5 per cento del PIL nel 2010.

L’industria è il settore ove il calo della produzione,sia nella componente manifatturiera sia in quella delle costruzioni, è stato più forte.

La crisi del sistema industriale riflette la difficoltà ad adattarsi ai grandi cambiamenti che hanno

investito il contesto economico internazionale negli ultimi due decenni:

1)    la “globalizzazione”, ovvero l’integrazione mondiale dei mercati reali e finanziari;

2)    il processo di integrazione europea, culminato nell’introduzione della moneta unica; con l’ingresso sui mercati mondiali di grandi paesi emergenti, come Cina, India, Russia, Brasile e Turchia.  Tra il 1960 e il 1995 i dazi all’importazione sono diminuiti, nella media di tutti i paesi del mondo, dall’8,6 al 3,2 per cento

3)    il cambiamento del paradigma tecnologico, portato dalle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC), che hanno contribuito a ridurre i costi di trasporto e comunicazione e reso possibile il governo di processi produttivi e distributivi su scala globale14. La maggiore velocità di circolazione delle informazioni ha contribuito a creare differenze significative di performance tra chi è stato capace di coglierne le potenzialità e chi invece ha stentato ad adeguarsi.

La prolungata debolezza della domanda interna dello scorso biennio ha ulteriormente collaborato alla

significativa contrazione dell’economia.

In cosa non siamo stati capaci , come altri, come la Germania per esempio ?

Lo svantaggio dell’Italia e della Francia rispetto alla Germania è riconducibile soprattutto alla

minore capacità di penetrazione nei nuovi mercati emergenti: a sostegno della performance tedesca ha inoltre contribuito la maggiore concentrazione delle esportazioni nella componente autovetture, meno esposta alla concorrenza dei produttori dei paesi emergenti rispetto ad altri beni di consumo, che occupano invece una quota rilevante nelle vendite italiane e francesi.

La perdita di competitività dell’industria italiana incide non solo sulla possibilità di accesso ai

mercati esteri, ma anche sulla capacità di difesa delle quote di mercato interno: nel corso dell’ultimo

decennio la percentuale importata dei beni consumati dalle famiglie italiane è cresciuta in misura

significativa, soprattutto per quanto riguarda i prodotti dei settori più tradizionali. Il freno che ne è derivato per l’attività produttiva è stato aggravato dalla brusca caduta della domanda interna, pari al 6 per cento nell’ultimo anno e mezzo, contro incrementi dello 0,6 e dell’1,5 per cento, rispettivamente, in Francia e in Germania.

Fattori sfavorevoli, arretratezze e poco dinamismo sono i germi della situazione attuale: per combattere la crisi era necessario saper coniugare diversificazione di mercati e clienti; migliorare la qualità e le performance d’impresa.

È risaputo che per restare a livelli competitivi nel mercato un’impresa deve essere dinamica e adattarsi ai suoi cambiamenti, a meno che non abbia abbastanza potere nel settore da poterli indirizzare; i cambiamenti.

È condivisa in letteratura l’idea che l’innovazione di processo, generalmente associata all’acquisizione di nuovi macchinari o allo sviluppo di nuove forme organizzative della produzione, abbia un effetto positivo diretto sulla produttività. Quella di prodotto invece agirebbe in modo indiretto, dopo che si sono completati i meccanismi di aggiustamento della domanda: la maggiore domanda per un nuovo prodotto di successo permette all’impresa di sfruttare l’effetto di learning nella produzione e di accrescere la propria produttività (Harrison et al., 2008).

Si può analizzare nel dettaglio i settori dove l’ Italia ha peccato e le motivazioni . [1]

Spesa totale in R & S (Ricerca e Sviluppo) ?

Secondo l’OCSE in Italia la spesa totale in R & S era pari all’1,3% del PIL, un valore inferiore alla media della UE  (2,0%). A fronte di una spesa pubblica in R&S solo lievemente inferiore rispetto agli altri principali paesi europei, in Italia particolarmente  bassa quella dei privati, quindi delle imprese, che è pari allo 0,7 per cento del PIL, contro l’1,2 della media della UE, l’1,4 della Francia e l’1,9 della Germania.

In ’Italia abbiamo certo piccole e medie imprese ch innovano senza registrare ufficialmente spese

in R&S. ma le imprese italiane che dichiarano di realizzare innovazioni di prodotto senza volgere in modo esplicito attività di ricerca e sviluppo hanno una quota di fatturato da prodotti innovativi più bassa , oltre che una capacità decisamente inferiore , da un punto di vista qualitativo, di realizzare brevetti, disegni industriali, marchi d’autore etc.  (Bugamelli, Cannari, Lotti e Magri, 2012)

Ritardo innovativo e tecnologico

 Durante gli anni novanta l’Europa ha senz’altro tardato a trarre vantaggio dal nuovo apparato tecnologico.

Considerando poi la percentuale di individui che utilizzano internet, il ritardo dell’Italia è ancor più marcato: : il valore italiano (56,8 per cento) è inferiore di 25-30 punti percentuali rispetto agli altri principali paesi europei (Benvenuti, Casolaro e Gennari, 2012). I dati della terza indagine della Banca d’Italia sulla diffusione delle TIC nei pagamenti e nel commercio elettronico indicano un miglioramento del clima di fiducia nei confronti delle attività in rete, ma segnalano come la ancora limitata diffusione del commercio elettronico riduca fortemente gli incentivi per la singola impresa a farne uso (Banca d’Italia, 2010a).

Integrazione europea

Il processo di integrazione mondiale dei mercati si è abbinato al processo di integrazione

economica europeo. Il mercato unico e, in particolare, l’unificazione monetaria – che ha ridotto i costi

di transazione, eliminato il rischio di cambio e indotto maggiore trasparenza nei prezzi e nei costi –

hanno avuto l’effetto di promuovere ulteriormente la concorrenza nei mercati dei prodotti e di favorire

una riallocazione della produzione su scala europea. L’adozione dell’euro ha anche posto fine alla

possibilità per i singoli paesi di ricorrere a svalutazioni per fronteggiare perdite di competitività (Bugamelli, Schivardi e Zizza, 2010).

Forse troppo spesso l’euro si accolla colpe che sono in realtà dovute alla nostra mentalità, alla nostra società e alle nostre istituzioni !

Dimensione impresa e struttura proprietaria

Elemento determinante della crisi industriale italiana è senz’altro, a partire dagli anni settanta, il calo del numero delle grandi imprese. Piccole e medie imprese hanno dato e continuano a dare al sistema produttivo italiano una notevole flessibilità. Tuttavia, oggi più che in passato, la ridotta dimensione aziendale frena la capacità di innovare  prodotti e processi produttivi,  recepire  nuove tecnologie e aumentare l’efficienza (Pagano e Schivardi, 2003); inoltre rende le imprese più vulnerabili ai cambiamenti del contesto internazionale, esponendole maggiormente alla concorrenza dei paesi emergenti e limitandone la capacità di espansione su mercati più dinamici, oltre a portare una minore internazionalizzazione: secondo i dati relativi all’universo degli esportatori italiani, nel 2010 la

percentuale di esportatori sul complesso delle imprese attive passa dal 2,9 per cento tra le imprese con

meno di 10 addetti, al 24,4 tra quelle con 10-19 addetti, al 40 tra quelle con 20-49 addetti e a oltre il 50 tra quelle con più di 100 addetti.

La dimensione di impresa riflette le scelte degli imprenditori; sulla performance delle imprese italiane incidono anche la loro struttura proprietaria e, soprattutto, quella gestionale, entrambe a carattere prevalentemente familiare.

Secondo i dati del campione EFIGE, le imprese italiane che fanno capo a una famiglia

proprietaria sono l’86 per cento, un dato solo lievemente superiore a quello che si registra in Francia (80

per cento), in Spagna (83) e nel Regno Unito (81), ma inferiore a quello tedesco (90 per cento). Ciò che

differenzia le imprese familiari italiane da quelle degli altri paesi è soprattutto la scarsa propensione a

ricorrere a dirigenti di provenienza esterna.

Nelle economie in cui la diffusione di imprese familiari è elevata si osserva anche una minore

crescita della produttività e degli investimenti e una più bassa natalità d’impresa nei settori più rischiosi

(Michelacci e Schivardi, 2010). La maggiore avversione al rischio che caratterizza le imprese familiari

spiega la loro tendenza a esportare meno (Barba Navaretti et al., 2008) e a modificare di più le scelte di

accumulazione a fronte dell’incertezza (Bianco et al., 2012).

Costo del lavoro

Il costo del lavoro rappresenta circa il 17 per cento del fatturato dell’industria in senso stretto e circa i due terzi del valore aggiunto. Oltre un terzo del costo del lavoro è assorbito dagli oneri sociali. Per un lavoratore dipendente medio, celibe, senza carichi familiari, impiegato nel settore industriale, la retribuzione netta rappresentava nel 2011 poco più del 52 per cento del costo complessivo per l’azienda (quasi 58 per cento in media negli altri paesi dell’area dell’euro). La percentuale risultava più bassa soltanto in Belgio, Germania, Francia e Austria. Tuttavia, in presenza di un più elevato costo del lavoro in questi ultimi paesi. la retribuzione netta del lavoratore medio celibe era in Italia inferiore di circa il 15 per cento rispetto al Belgio e alla Francia, di circa il 20 per cento rispetto all’Austria e di poco più del 30 per cento rispetto alla Germania. Il costo del lavoro, pur avendo comunque sicuramente il suo peso, non è certo uno dei fattori che hanno maggiormente determinato la crisi, anche se ultimamente si è molto dibattuto su questo problema

Rapporto Banche  - imprese

Il ricorso alle banche è molto forte. Per le imprese italiane i debiti bancari

 rappresentano una quota dei debiti finanziari prossima al 70 per cento, rispetto al 38 per cento in

Francia, al 49 in Germania, e a circa il 30 per cento nei paesi anglosassoni. I prestiti alle

imprese non finanziarie costituiscono il 20 per cento dell’attivo delle banche italiane, rispetto al 9 per

cento in Francia e in Germania e al 13 per cento della media dell’area dell’euro.

Questo forte rapporto porta delle potenziali debolezze: In primo luogo le relazioni bancarie sono spesso caratterizzate da un grado elevato di frammentazione. Nel 2012 il 25,5 per cento delle piccole e medie imprese aveva rapporti con più di 5 banche; tra le grandi imprese la quota era del 56,8 per cento.

È un modello di finanziamento che può consentire vantaggi agli intermediari in termini di diversificazione dei rischi e alle imprese in termini di minori costi o maggiore disponibilità del credito, soprattutto nelle fasi espansive del ciclo.

Una seconda potenziale debolezza delle relazioni bancarie consiste nell’ancora elevata quota di credito a breve termine (benché in calo da circa venti anni, a fine 2012 era pari al 38 per cento, un livello alto nel confronto internazionale).

Le imprese innovative incontrano tipicamente maggiori difficoltà, e più elevati costi, nel reperimento di risorse finanziarie: sono infatti le imprese più innovative a avere maggiormente bisogno di appoggio da parte delle banche; ma queste, a seguito della crisi e della recessione e dei relativi fallimenti, sono diventate più diffidenti e pertanto ottenere credito è molto più difficile e i tassi sono sempre più elevati. Pertanto, solo chi ha forti capitali “familiari” o comunque personali può permettersi di investire nell’innovazione.

I rischi di rifinanziamento insiti nella struttura finanziaria delle imprese si sono materializzati rapidamente a seguito dell’adozione di politiche di erogazione del credito più selettive da parte degli intermediari. La quota di imprese che dichiarano difficoltà di accesso al credito è bruscamente aumentata fino a raggiungere il 12 per cento nel 2011.. Le difficoltà sono cresciute soprattutto tra le imprese manifatturiere e tra quelle localizzate nelle regioni meridionali.

Nell’insieme, queste evidenze suggeriscono che il modello di finanziamento delle imprese in

Italia ha garantito prima della crisi una notevole disponibilità di mezzi finanziari,  che ha potuto sopperire alla continua erosione della redditività operativa. Tuttavia i costi di questo assetto si sono rivelati eccessivi per numerose aziende la cui fragilità finanziaria, durante la crisi, ha pesato sui piani di investimento, sui livelli di occupazione e, nei casi più gravi, persino sulla loro sopravvivenza.  Negli ultimi anni sono stati adottati diversi provvedimenti correttivi, ma è ancor troppo presto per poterne valutare l’efficienza.

Energia

I costi energetici costituiscono una voce difficilmente comprimibile per le imprese industriali. I prezzi sostenuti dalle aziende italiane per gli acquisti di energia elettrica, che costituiscono oltre la metà delle spese energetiche delle imprese industriali71, sono superiori di circa il 30 per cento a quelli delle loro concorrenti europee72; quelli del gas naturale sono, invece, sostanzialmente in linea con quelli medi della UE. Sui prezzi dei beni energetici pagati dalle imprese italiane pesano anche alcuni fattori interni. In primo luogo, l’imposizione fiscale sull’energia è elevata nel confronto internazionale: secondo Eurostat nel 2010 la tassazione per unità di energia primaria ammontava in Italia a 180 euro per tonnellata equivalente di petrolio, un valore superiore del 44 per cento alla media dell’UE e secondo solo a quello di Danimarca e Lussemburgo.

In definitiva,  un conto è parlare di “uscita dal tunnel” un conto di ripresa vera e propria. Con percentuali di poco superiori allo zero la ripresa è ancora una meta lontana e si potrà parlare davvero di nuova fase quando i segnali saranno più stabili e soprattutto più consistenti. Senza la pretesa di raggiungere livelli …tedeschi, una buona ripresa dell’economia deve poi comunque essere supportata dalla politica: lotta alla corruzione, taglio degli sprechi soprattutto nel settore pubblico (colpendo però non i “soliti tartassati” ma ad esempio gli sprechi e i costi altissimi della politica e dell’apparato burocratico), investimenti  sulla ricerca e sulla sperimentazione. E sarebbe importante anche un migliore rapporto scuola ­- università: come accade in alcuni paesi europei, in cui ai neolaureati sono offerti stage a cui possono seguire, se i candidati sono all’altezza, anche rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Finché la giovani generazioni non potranno ricominciare a guardare al futuro con un minimo di fiducia e speranza, “ripresa” sarà solo uno slogan



[1] Abbiamo più volte fatto riferimento  al recente documento di Bankitalia  i cui si analizza il rapporto tra globalizzazione e crisi:  http://www.bancaditalia.it/pubblicazioni/econo/quest_ecofin_2/qef193/QEF_193.pdf     

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