Editoriale

Peluche fucsia al posto della statuaria tradizionale

Genova come Singapore degrada la necessità della bellezza nelle città al giochetto infantile di pupazzi adatti alle camerette dei bimbi

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

Genova  due peluche giganti di colore fucsia, raffiguranti due maiali di tre metri e mezzo intenti a spararsi,  fanno bella mostra di sé, uno di fronte all’altro, sui piedistalli marmorei dell’entrata principale di Palazzo Ducale. Su quei piedistalli un tempo campeggiavano le statue dei patrizi Andrea e Giovanni Andrea Doria, opera di artisti del XVI secolo, poi abbattute, nel 1797, dai moti popolari che portarono alla proclamazione della Repubblica Ligure.

Dai simboli dell’aristocrazia ai peluche pop del barlettano Luca Lomazzo il passo non è breve, malgrado la dotta citazione che ha accompagnato la recente installazione, intitolata “Napoleon vs Napoleon”, occhieggiante  al romanzo di Orwell “La fattoria degli animali”, così sottolineata dall’artista: “Le due sculture incarnano la violenza umana e il continuo lottare con i propri simili per la supremazia, una concorrenza che ha portato le civiltà ad evolversi le une contro le altre con una continua corsa agli armamenti. Non a caso sono due maiali, che rappresentano due esseri umani, due dittatori che si affrontano per salvaguardare il potere”.

I genovesi  si sentiranno rappresentati da questo “confronto” di maiali armati ?

Francamente  abbiamo qualche dubbio, preferendo una visione “estetica” – ci si passi il termine “reazionario” – dell’arte, quella visione che faceva dire a Dostoevskij "L'umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui".

Siamo in una dimensione troppo “semplificatoria”, se non semplicistica ? A noi sembra piuttosto di andare all’essenziale, cogliendo un’idea di arte che non si compiace di se stessa,  ma sa calarsi nella realtà,  sa dialogare con la gente, sa sfidare i tempi, ipotizzando una nuova crescita, anche estetica, della società, sa coniugare forma e sostanza, al di là di ogni compiaciuto infantilismo intellettuale.  

A differenza di quanto non credano gli apostoli dell’egualitarismo, il talento non è infatti un limite alla creatività. Nella crisi del bello, la sterilità creativa ha trovato nella negazione delle competenze il proprio alibi. Portare al centro della produzione artistica i fattori formali e sostanziali che stanno alla base di compiuti percorsi formativi, significa dare nuova dignità e nuova consapevolezza a quanti in essa e per essa di trovano ad operare. E significa, nel contempo, ricollegare contemporaneità e tradizione, ricucire antistorici strappi, ritrovare la grandiosità di una Storia, la sua complessità, la sua capacità stupefacente.

Presente e passato così azzerano le distanze. E sola resta la forza evocativa della creatività, che sa ritornare all’essenza della forma e all’orgoglio e alle responsabilità che provengono dall’appartenenza.

L’artista non può infatti rispondere solo a se stesso. Né l’architetto progettare per il suo piacere estetico. Né l’urbanista inventare dissociandosi dalla realtà.

Di fronte ai rassicuranti peluche, immancabili “simboli del potere” armato,  preferiamo – con tutta franchezza – la capacità evocativa della romanità, la ricchezza delle nostre chiese barocche,  l’ordine vanvitelliano, l’efficacia sociale della pittura murale, l’estetica d’acciaio dell’avanguardia futurista, l’invenzione metafisica di un De Chirico, perfino certo “robusto” realismo, tutte sintesi di visioni complessive che hanno saputo, in epoche diverse,   collegare ambiente, pittura ed architettura, con buona pace per certi “installatori” di ultima generazione.

Insomma un’idea non effimera  dell’arte, su cui vale ancora la pena di scommettere per “riassumere” la nostra identità nazionale e guardare al futuro con un nuovo slancio estetico, mettendo nel cassetto certi rassicuranti “peluche”.

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