Parla Valentuomo

Vittorio Feltri per «il Giornale», 8 maggio 2013

Giulio Andreotti è l'unico defunto celebre che non sia stato fatto santo subito. Anzi, coloro i quali ne hanno scritto- articoli fiume- si sono limitati a ricordare prevalentemente i suoi peccati, inventandone parecchi, tranne quelli della carne perché egli, oltre che spiritoso, era puro spirito e non aveva mai alimentato il gossip, ma soltanto maldicenze politiche. Le lingue biforcute, in mancanza di spunti, hanno abbondato in sputi, profanando la salma. Devo ammettere, a denti stretti, che anche a me Andreotti non piaceva.
Ai miei occhi egli rappresentava il peggio della peggior Democrazia cristiana, l'emblema del doppiogiochismo, dell'ambiguità: ciò che ha creato per decenni i presupposti dello sfacelo di cui ora soffriamo le conseguenze. Probabilmente, il mio non era un sereno giudizio, ma un rancoroso pregiudizio.
Sta di fatto che in lui vedevo il campione della politica all'acqua santa, più sensibile alle ragioni dello Stato vaticano che non a quelle della nostra vituperata Repubblica, mai diventata laica e pertanto rimasta indietro rispetto ad altri Paesi europei, specialmente in materia di diritti civili.
Come persona, mi era invece simpatico. Educato, incapace di alzare la voce, mai infastidito dalle altrui opinioni, era il prototipo del gentiluomo romano, l'esatto contrario del caciarone cui la commedia all'italiana deve il proprio successo. I miei sentimenti sul suo conto gli erano ben noti. Nonostante li esternassi per iscritto e in televisione, lo lasciavano però indifferente. D'altronde, era refrattario a tutto, figuriamoci alle passioni di un giornalista.
Il giorno della mia nomina, nel 1989, a direttore dell' Europeo, del quale era collaboratore fisso, titolare di una rubrica intitolata Visti da vicino, Andreotti mi telefonò per darmi il benvenuto, rendendo meno amaro il mio impatto con la redazione che mi aveva accolto proclamando, così, tanto per gradire, uno sciopero durato un paio di mesi.
Per due anni e passa i rapporti professionali tra me e l'allora presidente del Consiglio furono cordiali, guastati da un solo incidente, la vicenda Gladio, sulla quale pubblicammo un'inchiesta controversa, per lui indigeribile: lo imbarazzava il fatto che la rivista su cui firmava interventi settimanali lo tirasse in ballo quale coprotagonista di uno scandalo. Come dargli torto?
Il premier mi invitò a Roma per trattare della questione. Lo raggiunsi a Palazzo Chigi. Attesi in anticamera qualche minuto, praticamente un'eternità per chi, come me, si aspettava d'essere investito da un uragano. Quando la porta si spalancò, mi alzai di scatto dalla poltrona, neanche avessi avuto una molla sotto il sedere. In quell'istante mi stupii di non essere stato colpito da infarto e mi feci coraggio. Mi avvicinai sollecitato da lui: «Si accomodi, direttore». Il tono della voce era cortese.
Conversammo una decina di minuti, forse meno. Si informò circa l'andamento del giornale. Io intanto fremevo. Pensavo: adesso, superati i preliminari, me ne dirà quattro. Macché, nemmeno una parola, come se la cosa non lo riguardasse più. Mi parve di cogliere sulle sue labbra affilate e marmoree un vago sorriso, o forse era solo una smorfia.
Mi salutò porgendomi la mano, subito ritraendola. Me ne andai sbigottito. Non capivo perché mi avesse costretto a scendere a Roma da Milano per poi non lamentarsi di nulla. Evidentemente si era accontentato della premura con cui mi ero precipitato nel suo ufficio, distante 550 chilometri dal mio, per balbettare una mezza frase di scuse pasticciate. Incidente chiuso.
Trascorsero alcuni anni, durante i quali continuai a criticare la Dc, l'andreottismo, il Caf e l'ambaradan politico dell'epoca in procinto di implodere sotto le bordate di Mani pulite. Ed ecco la bomba: Belzebù indagato per mafia e mille altri reati degni di Al Capone. Sembrava il canovaccio di un brutto romanzo, la sceneggiatura di un telefilm di quart'ordine. Incredibile, paradossale. Un uomo che era stato sette volte premier e 23 volte ministro, il personaggio più potente d'Italia che si impasta con la feccia mafiosa e bacia Totò Riina, allo scopo di impadronirsi di un poterino ributtante quale è quello della Piovra? Non poteva che trattarsi del prodotto di una fantasia mediocre.
Scrissi un paio di commenti freddi, poi non me ne occupai più. Nel 1994 incontrai Paolo Cirino Pomicino. Mi propose una cena riservata nella sua villa sull'Appia antica con lui e Andreotti, il quale aveva bisogno di parlarmi. Accettai. Concordammo tempi e modi e, una settimana dopo, mi ritrovai seduto a tavola con i due leader democristiani.
Nella circostanza non ero affatto intimorito, semmai pieno di curiosità. La chiacchierata entrò subito nel cuore del problema: manco a dirlo, quello giudiziario che angustiava il senatore a vita (nominato tale da Francesco Cossiga, consapevole dei guai del collega). Andreotti raccontò per filo e per segno l'ingarbugliata vicenda.
Calmo, lucido, sintetico, egli mi persuase dell'opportunità di intraprendere una campagna di stampa, lunga e sistematica, che colmasse un vuoto. Quale? L'apparato informativo nazionale ( cartaceo e televisivo) enfatizzava i rintocchi petulanti della campana accusatoria e ignorava perfino i trilli del campanello difensivo. Uno sbilanciamento intollerabile.
Raccolsi la perorazione e avviai sul Giornale (poi anche su Libero) la pubblicazione di una serie martellante di articoli che mettevano in luce gli argomenti a sostegno dell'innocenza di Andreotti. Della quale non dubitavo. Con tutti i giornalisti beneficati dalla Dc, quindi in debito di gratitudine nei confronti dei dirigenti scudocrociati, allora non capivo perché avesse scelto proprio me per quella sacrosanta operazione: riequilibrare le forze in campo giudiziario, sbilanciate a favore della Procura. Un'idea col tempo me la sono fatta: Andreotti non si fidava di nessuno, ma all'occorrenza preferiva rivolgersi a un nemico vero piuttosto che a un amico falso. Oggi si scopre perché.
 

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