Editoriale

Con la morte di Rauti si chiude la grande stagione della destra

Quella che poteva essere e non è stata, ma non è detto che i semi gettati non fruttifichino... prima o poi

Gennaro  Malgieri

di Gennaro  Malgieri

i chiederò a lungo, rivedendo il mio passato politico-intellettuale di militante organico/disorganico, se la destra che Pino Rauti immaginava si fosse concretizzata quale sarebbe stato il suo stesso destino e, naturalmente, quello del Paese.

Adesso che non c'è più, sopitesi le passioni che lo hanno visto al centro di interminabili contese nel suo stesso ambiente, credo che il modo migliore per ricordarlo sia quello di interrogarsi sulla visione che Rauti aveva del ruolo di un partito moderno dalle ascendenze tradizional-conservatrici. Insomma, il tempo dei giudizi credo possa cominciare senza cedere all'aridità poiché la freddezza non appartiene a chi ha interiorizzato una visione del mondo fondata sull'elemento spirituale.

E allora dirò subito, procedendo per approssimazione, che Rauti, quale che sia il giudizio sulla sua complessiva vita politica, è stato tra i più lungimiranti "agitatori" di una certa destra volta all'innovazione del linguaggio e della prassi politica,  ben distante dal neofascismo che lungi dal dissacrarlo ha tentato di storicizzarlo onde far vivere ciò che era in esso praticabile per seppellire le scorie inattuali, retoriche, sostanzialmente impolitiche.  Gli va riconosciuto questo merito, mentre gli va dato atto di aver contribuito parimenti a far uscire la destra dal perimetro della ghettizzazione intellettuale aprendo alla priorità della cultura quando il Movimento Sociale Italiano - a parte alcune lodevoli eccezioni - sembrava volersi chiudere negli maleodoranti angiporti del politicismo e del politicantismo.

Pur non rinnegando la pratica parlamentare, della quale anzi è stato un cultore finissimo ed assiduo per numerose legislature, tanto in Italia quanto in Europa, Rauti immaginava che la funzione della destra non dovesse esaurirsi nel rappresentare le legittime aspettative dei suoi elettori, ma nel creare i presupposti di una vitale e non  velleitaria "rivoluzione culturale" di impronta metodologica "gramsciana".

Perciò riteneva possibile ed auspicabile il cosiddetto "sfondamento a sinistra" dove pensava di intercettare consensi che, sciolti dal progressismo delle élites che li condizionavano, esprimessero la loro anima popolare nel riconoscere la tradizione. Era alle classi sociali più reattive e meno conformiste, insomma, che Rauti intendeva rivolgersi non con ragionamenti populisti, ma con la "forza delle idee senza parole", come diceva Spengler, che fatalmente si sarebbero dovute concretizzare in una rivolta contro la modernità, nell'accezione deteriore del termine, e con la riproposizione di una questione sociale affrancata dalla lotta di classe.

Una posizione di questo genere era minoritaria nel Msi, ma non priva di suggestioni in una più vasta destra diffusa, vale a dire non incasellata nel perimetro partitico, aperta a contributi anche eterodossi, non convenzionali.

 Per questo Rauti - attraverso un'azione culturale intelligente e penetrante, condotta con gli strumenti del suo tempo: giornali, riviste, centri studi, pubblicazioni di settore, ecc. - collocò se stesso ed i gruppi che animava in alternativa alla dirigenza del suo stesso partito dal quale, entrò ed uscì negli anni Cinquanta e Sessanta, per poi collocarvisi stabilmente quando, nel 1969, Almirante successe a Michelini e si profilarono le condizioni per la creazione di una Grande Destra, nazionale e sociale, alternativa al sistema.

Rauti non si nascondeva le difficoltà del suo tentativo che parve alla portata quando nel 1990 assunse la segreteria del partito. Era anche consapevole delle difficoltà esterne, oltre che interne. Non bisogna infatti dimenticare che Rauti è stato oggetto di inchieste giudiziarie, finite tutte puntualmente nel nulla, per oltre quarant'anni, accusato di misfatti orrendi e demonizzato oltre ogni misura.

Nonostante tutto, egli non si è mai piegato, non ha mai deflettuto rispetto ai suoi principi ed ha tentato, riuscendoci, di far compiere alla destra quel passo verso la modernizzazione attraverso la cultura, le idee, lo studio, l'approfondimento, cosciente com'era, che non vi è buona politica senza consapevolezza intellettuale e questa la si proietta nella società soltanto con i mezzi appropriati. Da qui la sua idiosincrasia a rinchiudersi nel ghetto quando riteneva che soltanto aprendosi al dibattito contemporaneo, alle nuove scienze, alla cultura più viva e vitale, si poteva procedere alla conquista della società civile.

È il suo lascito. È la sua eredità.

A me resta di lui l'immagine di un esempio di politico-intellettuale come non se ne incontrano più. E ricordandolo, con gratitudine personale, malinconicamente penso che  dopo le dipartite di Accame, Erra, Gianfranceschi con Pino Rauti si chiude la  grande stagione della destra che poteva essere e che non è stata. Il ché non vuol dire che i semi di quella stagione sono andati dispersi, ma soltanto che non hanno dato i frutti nei tempi che si potevano immaginare. La storia, comunque, non finisce qui.

Ti sia lieve la terra, caro Pino.   

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