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Stranieri in patria

Camus e Silone le scomode coscienze critiche di Francia e Italia

Lo scrittore francese divide gli intellettuali sulla questione coloniale, quello italiano mette tutti d'accordo nel dimenticarlo

di Giovanni F.  Accolla

Camus e Silone le scomode coscienze critiche di Francia e Italia

ALBERT CAMUS - IGNAZIO SILONE

Dopo lo storico Benjamin Stora, anche il filosofo Michel Onfray si è “chiamato fuori”. Non sarà neanche lui il commissario della grande mostra su Albert Camus prevista ad Aix-en-Provence per l'anno prossimo, centesimo anniversario della nascita dell’autore de “Lo straniero” e “La peste”. E la polemica Oltralpe esplode.

“Albert Camus, l’etranger qui nous ressemble” (Camus lo straniero che ci assomiglia), inserita nella cornice dei festeggiamenti di Marsiglia e Provenza capitale della cultura 2013, è divenuta una polveriera la cui miccia, accesa cinquant’anni fa, mostra di essere ancora in piena combustione. La questione coloniale e la guerra in Algeria in particolare, dividono la Francia degli intellettuali, quanto quella dei politici e degli amministratori.

Così Onfray - per rimanere in metafora - se ne è andato buttando benzina sul fuoco: accusando tutti, la società francese ferma al tabù della propria grandeur e prigioniera di un’assurda polarizzazione, le istituzioni reticenti, gli intellettuali vigliacchi, i giornali corrivi, i partiti interessati. La figlia dello scrittore, Catherine Camus, è atterrita. Anche la ministro della Cultura, Aurélie Filippetti, infatti, sembra avere ritirato i fondi destinati all’occasione del centenario. Alla faccia della grandeur!

Ad oltre cinquant’anni dalla sua prematura morte - avvenuta in un incidente le cui dinamiche rimangono ancora oscure - Albert Camus, dunque, continua ad essere un macigno sulla coscienza politica e civile della Francia: la sua ferma condanna del colonialismo, le posizioni assunte tanto dall’interno della resistenza francese che nel corso dei primi decenni della Terza Repubblica, attraverso i suoi interventi pubblici e sulla stampa (ma soprattutto sui suoi libri: penso a quel capolavoro d’umanesimo che “L’uomo in rivolta”), ancora dividono l’intellighenzia e la politica francese. Bene. Ne sono felice, perché è il segno tangibile che Albert Camus è vivo. E Dio sa quanto del suo pensiero, in Europa (Italia compresa), ce ne sarebbe ancora bisogno.

Peccato che, qui da noi, di Camus se ne parli poco e nulla. Peccato, soprattutto, che in Italia un autore come lui - non solo per le qualità letterarie, ma per la sensibilità con la quale si approcciava ai temi civili e sociali - non lo abbiamo mai avuto. Magari nello stato di confusione politica e culturale e di perenne e irrisolto clima post bellico in cui galleggiamo (o affondiamo senza soluzione), saremmo arrivati ad una parola definitiva.

Perché se in Francia è il colonialismo a dividere, da noi, si sa, sono le ragioni di un antifascismo vivo all’abbisogna, solo per seminare odio e rianimare vecchi ed inutili rancori che non ci emancipano né politicamente, né - tantomeno - come popolo. L’italiano è sempre reduce di qualcosa di cui s’è perso il senso anche semantico. Non c’è ne è uno, tra di noi, si badi bene, che non sia un ex!

In verità,  uno scrittore italiano che, per certi versi ricorda Camus, c'è stato, ed è Ignazio Silone. Non è un caso che, tra i suoi contemporanei italiani, era quello che Camus più apprezzava. Niente Moravia, per intenderci, nessun neo-realista allineato e coperto.

Recensendo  “Fontamara” Camus fu perentorio: “se la parola poesia ha un senso, è qua che la ritrovi, in questo spaccato di un'Italia eterna e rustica, in queste descrizioni di cipressi e di cieli senza eguali e nei gesti secolari di questi contadini italiani”.  E, così, all’annuncio della vittoria del Nobel per la letteratura, lo scrittore francese dichiarò: “A meritare il Nobel era Silone. Silone parla a tutta l'Europa. Se io mi sento legato a lui, è perché egli è nello stesso tempo incredibilmente radicato nella sua tradizione nazionale e anche provinciale.”

Silone, scrittore da noi per lo più obliato - o tirato fuori dalla pubblicistica e dalla cattiva critica avvezza a giudicare l’autore piuttosto che l’opera - è  spesso ricordato per essere stato cacciato con l’accusa di trotskismo del Partito comunista (e di lì in poi per l’aperta aperta polemica con Togliatti e compagni); o per i presunti, mai davvero dimostrati, rapporti con la polizia segreta fascista, forse relativi (dicono alcuni storici della letteratura) al tentativo di scagionare il fratello Romolo accusato, ingiustamente, di strage e morto nel carcere di Procida nel 1932.

Al pari di Albert Camus, Silone amava l’essere umano più di ogni altra sua proiezione ideologica, e soprattutto, si batteva per la libertà assoluta che è - sono parole di Silone - “la possibilità di dubitare, la possibilità di sbagliare, la possibilità di cercare, di sperimentare, di dire di no a una qualsiasi autorità, letteraria artistica filosofica religiosa sociale, e anche politica”.

 “Il destino  - scriveva sempre Silone - è un'invenzione della gente fiacca e rassegnata”, infatti egli scommise sempre e in ogni caso sull’alternativa del carattere, che esercitò in tutte le fasi della vita.

Quando da giovane si trovò a Mosca inviato da Togliatti per conto del Partito comunista italiano, annotò: “ciò che mi colpì nei comunisti russi, anche in personalità veramente eccezionali come Lenin e Trotsky, era l'assoluta incapacità di discutere lealmente le opinioni contrarie alle proprie. Il dissenziente, per il semplice fatto che osava contraddire, era senz'altro un opportunista, se non addirittura un traditore e un venduto. Un avversario in buona fede sembrava per i comunisti russi inconcepibile.”

Fuori da Pci, divenne “socialista senza partito”, poi, seguendo una sua sempre più radicale vocazione di difensore degl’ultimi, Silone divenne credente e con stessa insofferenza per le gerarchie, questa volta ecclesiastiche, fu un “cristiano senza chiesa”; fautore di un Cristianesimo capace di ripercorrere la sua storia per tornare alla purezza del messaggio evangelico delle origini.

Con una lucidità di analisi in grado di precorrere i tempi, Silone già negli anni Cinquanta iniziò a parlare di regime partitocratico, affermando che “dato che il vero centro del potere reale è fuori dal parlamento, negli esecutivi dei partiti, sarebbe più esatto dire che noi viviamo in un regime di partitocrazia.” Dalla polemica contro gli apparati dei partiti, poi, prese le mosse, sfociando in una dura analisi delle intromissioni della Chiesa nella vita politica italiana che esercitava, per Silone, un decisivo controllo sul principale partito italiano dell’ epoca, la Dc.

Ne fa un ritratto notevole Indro Montanelli quando scrive: “fenomeno unico, o quasi unico, fra gli sconsacrati del comunismo che di solito non superano mai più il trauma e trascorrono il resto della loro vita a ritorcere l'anatema, Silone non recrimina. Egli rifiuta i grintosi e uggiosi atteggiamenti del moralista, o meglio ne è incapace. Domenicano con se stesso, è francescano con gli altri, e quindi restio a coinvolgerli nella propria autocritica. Cerca di metterne al riparo persino Togliatti; e se non ci riesce che in parte, non è certo colpa sua. Qui non c'è che un accusato: Silone. E non c'è che un giudice: la sua coscienza.”

Il messaggio rivoluzionario di Silone, proprio come quello di Camus è porre la luce della propria attenzione sull’uomo e sulla sua anima. Si interessano entrambi di uomini nudi e soli, che consapevoli della loro condizione, si sforzano eternamente di spezzarla con l'arma della speranza e con le opere di compassione e tolleranza, senza compromessi e scappatoie ideologiche. Peccato che per Silone, dacché nato nel 1900 e morto nel 1978, dovremmo attendere ancora anni per celebrarlo con lo scandalo che merita. Ma intanto tifiamo per Camus e per mantenere viva la sua lezione di pensatore e uomo non omologabile.

 

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    2 commenti per questo articolo

  • Inserito da Giulia Paola Di Nicola il 17/11/2017 09:40:35

    Ottimo articolo da condividere. Dobbiamo fare la nostra parte. Io la sto facendo insieme ad Attilio Danese. Nel corso di lezioni a Chieti e Pescara presentiamo Silone, perchè non sia dimenticato dalla nuove generazioni. Gli studenti ne sono entusiasti.L'abbiamo anche presentato nei convegni a Rio de Janeiro (con pubblicazione relativa) e in Africa.

  • Inserito da romolo tranquilli il 27/01/2016 13:17:21

    La Grandezza di Silone,qui magistralmente sostenuta evocando Camus, è dovuta da quella drammatica esperienza vissuta da lui nei suoi primi 30 di vita. E' stato,per così dire l'inevitabile "letamaio" della clandestinità a far fiorire la Grandezza della sua Coscienza. Smettiamola di guardarlo dal buco della serratura e così pure di difenderlo con l'atteggiamento riduttivo: "..l'ha fatto per difendere suo fratello.." Silone non ha bisogno di essere difeso, si difende da solo con tutta la sua opera e con la dignità dlla sua drammatica esperienza di vita in cui la tragedia di suo fratello (ne porto indegnamente il nome) ha avuto un peso importante.

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