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di Simonetta Bartolini

ITACA O TROIA? NESSUNA DELLE DUE… LAVINIO! A ULISSE PREFERISCO ENEA

Non è forse Virgilio che Dante incontra sulle soglie dell’Inferno?

Subito dopo le tre fiere?  Non è forse Virgilio la guida? Non è forse Virgilio l’anello di congiunzione tra mondo pagano e mondo cristiano? Tra mondo antico e mondo moderno? Lasciamo Ulisse e seguiamo Enea… L’Eneide comincia così:

 

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiam, fato profugus, Laviniaque venit
litora, multum ille et terris iactatus et alto
vi superum saevae memorem Iunonis ob iram;
multa quoque et bello passus, dum conderet urbem,
inferretque deos Latio, genus unde Latinum,
Albanique patres, atque altae moenia Romae.
Musa, mihi causas memora, quo numine laeso,
quidve dolens, regina deum tot volvere casus
insignem pietate virum, tot adire labores
impulerit. Tantaene animis caelestibus irae?”

 

Prendo in prestito proprio un capitolo di Vivere non basta di Marcello Veneziani: Sul viaggiare e sul tornare (pag. 37)

 

–Da cosa sfuggi, Lucilio? Perché ti allontani di corsa? Sfuggi alla morte, sfuggi alla vita, sfuggi a qualcuno o a qualcosa o cerchi qualcuno o qualcosa? Perché sei vagante, di cosa sei vacante? Di quale esuberanza trabocchi o coltivi un indicibile terrore?

­Me lo chiedo anch'io talvolta mentre mi accingo a precipitosi viaggi che somigliano a fughe. Hai ragione, Seneca, a disapprovare il mio continuo mutare di sede, segno di un animo incostante. Hai ragione a notare che non può rinsaldarsi la vita interiore in un'esistenza vagabonda. Ho ben chiaro nella mia mente quanto mi scrivesti tempo fa: ovunque tu vada i tuoi tormenti e i tuoi vizi ti seguiranno, perché viaggiando porti in giro sempre te stesso. Non sfuggirai alla tua indole, al tuo carattere e ai tuoi limiti. E dunque non il paesaggio ma l'animo devi mutare. Poi aggiungi che non dobbiamo essere attaccati a nessun luogo particolare e non dobbiamo sentirci a casa in alcun posto che non sia la nostra anima. Se me lo concedi, Maestro, non concordo né con l'uno né con l'altro tuo pensiero e provo a spiegare le mie ragioni.

Viaggiare è un esercizio costante che tiene sveglia la nostra coscienza, è un misurarsi col mondo che ravviva la nostra intelligenza e rafforza l'animo nostro nelle avversità e negli imprevisti, nelle curiosità e nei paragoni. Non distrae, non lenisce i dolori, come tu dici, e tantomeno ci libera da quel che noi siamo, ma certo fa capire con l'esperienza che la vita è più ricca, più varia e più sorprendente di quel che pensiamo stando ancorati a un museo di abitudini; ci sono ancora tante cose da fare, tanti mondi da conoscere, tante idee da pensare prima di chiuderci in un triste e rancoroso abbandono. Se partire, come l'orgasmo in amore, è un piccolo e breve morire, viaggiare è un piccolo e breve rinascere al mondo, A poppa smuore il paesaggio, a prua risorge.

Il viaggio è il paradigma della felicità, La vita si svolge nel segno della continuità, come la natura che non fa salti ma procede per gradi. Il viaggio segna invece la discontinuità, l'uscire dall'ordinato ripetersi dei giorni e dei luoghi. Così è la felicità, l'irruzione di un evento o di uno stato che non sono ordinari. La felicità come il viaggio, come la festa, e la fiaba, e il sogno, e il divino, si manifesta nella discontinuità. La vita ha bisogno di continuità per svolgersi, ma è la discontinuità a darle un senso.

La continuità è nella natura delle cose, la discontinuità è il soprannaturale o comunque il salto di piano. Viaggiare è sempre andare verso il paradiso.

A differenza di molti, io non viaggio per fuggire al mio mondo e ai miei cari, ma porto chi amo dentro dì me a spasso per il mondo. Li porto in un marsupio d'amore a vedere quel che io vedo, sotto altri cieli, in altri mari, fra altri popoli. Porto i miei cari scomparsi in giro per i luoghi a loro ignoti in vita e so che sono felici di conoscere tramite me. Sento la loro presenza quando sono lontano, il mio respiro s'intreccia col loro, alitano di meraviglia quando mi meraviglio, li sento felici di vita riflessa, i miei occhi si specchiano in altri occhi vicini, invisibili e veri. Avverto nella lontananza la loro prossimità. Li porto dove la vita non li condusse, faccio loro conoscere quel che il loro tempo, le loro risorse, la loro indole non permisero loro di vedere. Poi racconto la vita che incontro, le esperienze che conosco, perché anche gli altri vivano per rifrazione quel che io ho vissuto in prima persona e in grado più intenso, come se fossi la loro sentinella e il loro messo in terra straniera.

Mi piace sentirmi viandante solitario ma so che in realtà viaggio sempre in carovana con loro. Mi capita a volte di cogliere aspetti dei luoghi con i loro occhi più che con i miei, so cosa desterebbe la loro attenzione e allora mi adatto al loro sguardo per appagare, mio tramite, la loro curiosità. Così sento frusciare al mio fianco il battito d'ali della loro lieve felicità e ospitando quella breve letizia me ne sento partecipe. Avverto un soffio di gratitudine che si tramuta in gioia di esaudire. Nel viaggiare, la mia vita singolare si stempera nel cosmo e i miei occhi si liberano dì quel che è personale e diventano gradualmente occhi delle stelle che osservano la terra. È la vita che guarda se stessa tramite me. Il viandante più puro è uno specchio e uno scrigno del cosmo. Lo specchio per riflettere le bellezze evidenti, lo scrigno per custodire i tesori nascosti.

Ma io amo viaggiare anche per un'altra, più intima ragione: perché so che alla mia casa d'origine prima o poi tornerò, rivedrò i miei cari, riprenderò le mie abitudini, riscoprirò le bellezze nostrane e domestiche che la lontananza avrà acuito nella mia mente; e riporterò nella mia sede i frutti delle esperienze di quel viaggio in terra stra­niera. Il viaggio mi farà accrescere l'amore per la mia patria, la sua lontananza mi farà avvertire la sua mancanza e cogliere il valore e il sapore di quella vita. Quel che indichiamo come la nostra patria, e che amiamo di un amore tenero e aspro, comunque intenso e verace, è per noi un luogo fatale, perché il destino ci volle nativi in quel luogo e cresciuti in quel posto del mondo. Perché allora dovrei ritenere che ogni luogo si equivalga e non convenga per­ciò né partire né amare la nostra patria? A cosa conduce il tuo discorso, al dì là delle tue nobili intenzioni e del tuo saggio comportamento, cosa accade a chi segue le tue parole senza seguire la tua condotta? A non partire, perché il mondo non può cambiare il nostro animo; e a non amare il luogo in cui resti, perché la nostra patria è ovun-que e nessuno speciale legame ti unisce a quel luogo.

Se permetti, Maestro, per una volta divergo da te e preferisco pensare e volere al contrario: partire per conoscere e poi per tornare, amando viaggiare e amando poi ritrovare la patria nativa.

Il mondo intero è la mia patria, tu dici, e io aggiungo: perciò voglio viaggiare, per conoscere la mia patria ovunque. Il mondo intero è la mia patria, tu insisti, e io dico di sì, il mondo è la mia patria, ma a partire dalla mia terra natale e dal luogo che mi vide nascere non per caso, ma per sorte, come tu stesso insegni. E mi vide crescere nell'amore di un padre e di una madre, nell'affetto di fratelli e parenti, nelle cure di precettori e domestici, per non dire degli amici carissimi. Lasciami coltivare la passione dei viaggi e insieme la passione di far ritorno a casa, la mia patria nativa o adottiva.

Vero è che la vita, Seneca, ti ha portato a vivere lontano dalla tua patria natia e poi ti ha allontanato pure dalla tua patria adottiva. Troppe sofferenze ti ha recato l'esilio. Talvolta ho avvertito in te un sussulto di nostalgia per la tua lontana Cordova dell'infanzia e ricordo il tuo dolore quando mi raccontasti dei nove lunghi anni trascorsi in esilio in Corsica per un'ingiusta condanna; tu costretto a star lontano da Roma, tua patria d'elezione, dove c'erano i tuoi affetti e dove tu eri ammirato.

Come se non bastasse, hai voluto, questa volta di tua spontanea volontà, esiliarti una terza volta dalla tua residenza, e hai preferito la campagna del Sud che si affaccia sul mare ai fasti e nefasti di Roma. Ti comprendo, Seneca, e condivido la tua amara scelta; vuoi star lontano non da Roma ma dagli abissi dell'ingiustizia, dagli ornamenti fatui della vanità, in una città che ha perduto le virtù degli antichi. Il tuo è un confino d'amore. Non è Roma che vuoi abbandonare, semmai è la Roma che amasti a spingerti lontano dalla sua caricatura, per salvare inviolato il suo caro ricordo. Non dirmi che la tua vita non abbia sofferto il distacco dalla tua patria. Per questo ti chiedo di comprendere me che al viaggiare come al tornare ho dedicato la vita.

In fondo non si viaggia che per ritornare. Agli dei e alle pietre si addice la stasi, alle macchine e agli animali si addice l'andare, agli uomini invece si addice il tornare. Perché non riusciremmo mai a stare pietrificati in un luogo, non siamo motori immobili come il dio d'Aristotele. Non siamo né bestie né dei, diceva Io stesso filosofo di Stagira. La stasi e il divenire incessanti non possono essere il nostro destino di umani. Non apparteniamo alla stirpe divina che contempla il mondo dal suo immobile trono di pietra mentre i millenni scolorano il cosmo. E non siamo ruote che vanno continuamente, che macinano sentieri e frumenti; né siamo cavalli da corsa, felini o segugi da caccia, in moto perpetuo. Siamo piuttosto creature mediane, fra gli dei e gli animali come tra l'essere e il divenire. Agli uomini è consono tornare, covando una patria dentro di sé; perché è umano orientarsi nel mondo, abitare con gli occhi e con la memoria, ricordare e prevedere. Per stare o per andare non c'è bisogno d'intelligenza, per tornare sì. Il ritorno si addice all'intelligenza che sa orientarsi, che sa collegare e percorrere in avanti e a ritroso le strade della vita. Nel ritorno è la vera saggezza. Ma non si torma mai nella terra perduta o nel tempo perduto. Non ci bagniamo mai due volte nella stessa acqua del fiume, dice il tuo Eraclito, ma non ci immergiamo mai due volte nemmeno nello stesso istante del tempo fluente. Vorremmo piuttosto tornare all'origine, a un luogo oltre i luoghi, a un tempo oltre i tempi, dove abita l'essenza della nostra vita- Il conato che muove al ritorno è un anelito vibrante, nutrito di amo­re e mancanza, ricordo e impazienza.

Quel conato è un sentimento straordinario sul piano in-teriore, perché suscita l'arte e la poesia, esatta gli affetti, ci restituisce l'amore del tempo vissuto e dei luoghi più cari. Muta in rancore quando s'impone agli altri la sua restaurazione. Il conato del ritorno non indica solo il desiderio di ritrovare un luogo caro e lontano come accade in Ulisse, ma designa anche la struggente passione di un tempo perduto che non si può più ritrovare, come accade in Enea.

La nostra  Itaca diventa allora il nostro passato e non solo il luogo da cui ci separammo. È curioso pensare, Maestro, che, nella mente nostra, il tempo e lo spazio si riversano l'uno nell'altro, s'inseguono e reciprocamente sconfinano, a volte perfino combaciano. Di entrambi cogliamo la prossimità e la distanza.

Due esempi mitici descrivono l'epica del viandante: il viaggio di Ulisse, il vincitore che sogna il ritorno, e il viaggio di Enea, il vinto che sogna di rifondare la patria perduta- Ulisse ed Enea partono dalla medesima distruzione, la città di Troia, di cui uno è artefice e l'altro è vittima. Ulisse vuole tornare nel regno delle sue origini, dove abita la sua famiglia, dove ha sede la sua stirpe, vuole riannodare la trama del tempo perduto. Enea, invece, quel mondo lo ha ormai alle spalle, divorato dalle fiamme, e per lui non resta che salvare il salvabile, suo padre, suo figlio, i penati, e partire verso ignota destinazione. Anche il suo viaggio, come quello di Ulisse, è un ritorno: perché anch'egli vuoi ricostruire la casa, vuoi rifondare la città perduta, e la catastrofe che si lascia dietro non lo conduce all'oblio ma al sacro rispetto della memoria, incarnata dal vecchio padre Anchise. Enea si carica sulle spalle il peso paterno della memoria; porta in salvo suo padre, ormai consunto, caricandoselo addosso, come suo padre avrà fatto con lui quando era bambino- E porta con sé la consorte e suo figlio con l'intento di consegnare a lui, Ascanio, le chiavi invisibili della città futura, la città da fondare.

 

Dopo il lungo viaggio, Ulisse riesce a fare ritorno, e lo strazio di un regno mutato, in preda a impostori e sciacalli, viene alla fine cancellato. Ulisse ripristina in età senile la vita di un tempo, ritrova la moglie, il suo letto piantato nella terra, suo figlio, la sua servitù, il suo cane fedele, la matrice del luogo. Quel che non torna è la sua gioventù, e quella di lei; quel che li aspetta è una morte serena, dopo aver compiuto l'opera. La nostra sorte, Maestro carissimo, somiglia più a quella del pio Enea che a quella dell'astuto Ulisse. Non abbiamo da tornare ad alcuna patria lontana, la nostra Itaca è sommersa e bruciata, come Troia; non possiamo riportare in vita chi non c'è più, i nostri vascelli hanno lasciato per sempre la casa in fiamme. E allora non resta che fondare la nuova città, ma muniti della memoria, con i simboli, le tracce e gli eredi di quel mondo scomparso. Dico di Roma, devastata fin dentro il suo cuore, a cui necessita oggi una seconda nascita che somiglia a una nuova fondazione. Non parlo tanto dell'Urbe e delle sue province, parlo della Roma segreta e ulteriore che si legge all'inverso. Roma orma d'Amor.

Ci tocca viaggiare per fondare e non per restaurare quel che è cadente, per generare e non per ripristinare quel che si spegne. Propiziare la nascita e non limitarsi a salvaguardare gli ultimi lasciti dell'estrema vecchiaia. Di questa voglia di nascere e di fondare vedo scarsa traccia nei fori e nei cuori. Quel viaggio di ritorno non è ancora cominciato.

 

Credo che in questo capitolo ci sia tutto…  Tornare a Itaca, cacciare i Proci ma non avere più nessuno per ricominciare e aspettare la morte… oppure rimanere a Troia? È tutto molto affascinante, sì è vero… cacciare i mercanti dal tempio… oppure essere gli unici uomini in piedi tra le rovine… ma… sono entrambi senza un futuro… senza prospettiva... sono messaggi per chi si rassegna e non ha più voglia di lottare… per chi non ha più voglia di osare... di credere... di combattere…  di chi non ha più niente da dire e niente da dare...

Itaca o Troia??? in queste due scelte non c’è futuro… non c’è speranza… mentre il mondo ha bisogno di speranza e di linee guida… i giovani di maestri e di guide… che li proiettino e traghettino verso il futuro… e il futuro è edificare… è costruire… è ricominciare… è Credere che ci sia ancora qualcosa da salvare... da cui ripartire... vedo troppa gente e da troppo tempo ormai navigare in mare inseguendo l'orizzonte in cerca di un'approdo...

Saranno  forse le mie origini bucoliche... che Virgilio canta meravigliosamente… sarà la mia stirpe... la stirpe Sabina… che...  anche se con tutte le contaminazioni... rivendico orgogliosamente entrambe  come mie… che mi fanno scegliere Enea e Virgilio…

Roberta Di Casimirro

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    2 commenti per questo articolo

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