Il metodo del coccodrillo

La nuova fatica letteraria di Maurizio de Giovanni

Il romanzo è dedicato a Luigi Alfredo Ricciardi e alle anime al buio...

di Annamaria Torroncelli

La nuova fatica letteraria di Maurizio de Giovanni

Uno spietato omicida si aggira per le strade della città seminando morte. Tre ragazzi sono assassinati in terrificante sequenza in una Napoli dei giorni nostri, violenta e violentata. Apparentemente, i tre non hanno alcun punto in comune. L’ispettore Lojacono con lucidità e intuito, tenta di venire a capo dell’intrigo. Grazie alle sue capacità investigative riesce a smascherare  l’assassino, che, soprannominato dalla stampa il Coccodrillo, lascia sulla scena del delitto fazzoletti intrisi di lacrime. Perché dopo aver divorato i suoi figli, piange. Perché per colpire le sue prede si apposta, invisibile. Perché il Coccodrillo è nato per uccidere.

Questo l’intreccio della nuova fatica letteraria di Maurizio de Giovanni, Il metodo del coccodrillo, che proprio ieri è stato presentato ufficialmente a Napoli con uno straordinario successo di pubblico e critica.

Il romanzo è dedicato a Luigi Alfredo Ricciardi e alle anime al buio. Ci chiediamo. Perché una dedica alla sua creatura letteraria prediletta, quel tenebroso commissario dagli inquietanti occhi verdi, che lo ha consacrato tra i migliori scrittori italiani degli ultimi anni?  La risposta è semplice. Perché questa è la  prima volta di de Giovanni in un giallo senza Ricciardi, senza i protagonisti di sempre. Forse, l’affetto che lega l’autore a questo fortunatissimo personaggio, forse lo smarrimento per la nuova avventura letteraria, lo hanno spinto  a chiedere la sua protezione. Ma di protezione de Giovanni non ha bisogno, i  suoi timori nascono dalla semplicità e dalla modestia dei grandi che tutto temono e tutto mettono in discussione. A cominciare proprio da se stessi. Perché le ansie nascono dalla paura che il bel sogno svanisca al primo chiarore dell’alba.

Dice de Giovanni per bocca del Coccodrillo,

Lo sai, ci sono notti che non sono fatte per dormire.                                                                                                                         Non che ci sia ansia, o paura di non essere all’altezza di un compito, di una prova. Semplicemente, i desideri che si stanno per realizzare ti tengono sveglio.                                                                                                                                                     È un po’ come per i bambini la notte della befana. Un misto di timore e di aspettativa.

Ma il timore svanisce, e l’aspettativa è ben ripagata. Basta solo l’attacco della storia a fugare ogni dubbio. A dimenticare Ricciardi e le atmosfere dolenti e malinconiche della Napoli degli anni ’30.

La Morte arriva sul binario tre alle otto e quattordici, con sette minuti di ritardo.

Un treno, un binario, una fredda precisazione di orario, fredda come la Morte; e di colpo ci troviamo catapultati in una scenografia dura nel tratto, livida nei colori, avviluppati in grovigli di sentimenti intossicati da dolore e disperazione. Una scena da film in bianco e nero, dai contrasti forti. Il ritmo serrato, a tratti convulso, il linguaggio duro, la presenza di un unico colore, il grigio,  l’assenza di una natura partecipe completano una miscela che dà spazio solo alla tensione narrativa. Il racconto si beve, fila via veloce,  senza che siano trascurati l’analisi dei sentimenti e dei moti più intimi dell’anima,. Non si fatica a riconoscere la mano dell’autore, la sua scrittura di sempre, di una linearità preziosa, di un lessico dalla semplicità ricercata.  L’intreccio narrativo, come sempre, sembra essere pretesto per l’approfondimento di altri temi: il contesto cittadino, i rapporti con le donne, il confronto tra genitori e figli, il tema della solitudine.

Napoli  è  una città moderna, piena di contraddizioni e di contrasti sociali. Una città indifferente ai dolori, attenta solo a schivare ogni contatto con la malavita, e che evita anche di posare lo sguardo sul dolore, la disperazione, la morte. Violenta e torbida come una qualsiasi metropoli. Rappresenta la globalizzazione del crimine: i mali di Napoli, sono i mali delle città moderne. Tutte, indistintamente. Se non fosse per il preciso riferimento a luoghi conosciuti della città (Posillipo, rione Sanità, Vomero) potremmo trovarci a Napoli come a Chicago.

Le donne.  Letizia, la proprietaria della trattoria frequentata dall’ispettore  Lojacono, una donna matura, provata dalla vita, ma ancora bella e dolcemente attraente. Laura, il brillante sostituto procuratore, una donna dal carattere spinoso, e, suo malgrado, seducente e affascinante. Come non andare con la mente alle due protagoniste della saga ricciardiana, Enrica e Livia? Anche qui il protagonista maschile, Lojacono, è affascinato da due donne: una, Letizia, capace di evocare sentimenti materni, ancestrali, l’altra, Laura, capace di suscitare sintonie cerebrali e pulsioni fisiche. Proprio come Enrica e Livia. Viene solo da chiedersi: quando vedremo un protagonista innamorato di una sola donna? O forse, è questo un espediente letterario per sottolineare la poliedricità umana  ed emotiva dell’universo femminile? Come donna mi fa piacere crederlo. Certo, anche l’amletico dubbio in alternativa ad un’assoluta certezza non sarebbe male.  L’indecisione dei personaggi ce li rende  più “umani”, più vicini.

I genitori. Quelli colpevoli che seppelliscono figli innocenti, quelli che restano da soli a sorreggere le sorti della famiglia e che faticano a vivere, quelli  straziati dal rimorso di non aver compreso le debolezze dei loro figli e che vivono, dopo la loro morte, una vita che non è più vita.

I figli. Quelli  che arrivano non voluti, quelli che ricordano implacabilmente  un amore finito male, quelli desiderati sopra ogni cosa, anche a dispetto della natura, quelli strappati alla vita in un innaturale strada percorsa contromano, quelli che si affacciano alla vita timorosi e spavaldi.

Le solitudini. Quella di Lojacono, Solo, disperato e invisibile. E con una fame d’amore che non finisce mai. Quella di Laura …una voglia famelica di vita. Troppo tempo senza vivere. Troppo tempo a soffrire.Quella del Coccodrillo… invisibile, lungo il muro, attento a cedere il passo, a non essere di ostacolo per niente e per nessuno. Solo un cane addormentato alza il muso e un orecchio al suo passaggio, percependo l’alito di morte che porta addosso.

Una sola raccomandazione ai lettori: leggete con calma, controllate l’ansia di una lettura frenetica.  Dovete essere forti, non farvi trascinare dal ritmo che de Giovanni vi impone. Perché de Giovanni sa portare con maestria i suoi lettori dove lui vuole tessendo una storia che ci incatena alla poltrona tagliandoci il respiro. L’inizio, apparentemente lento, lascia spazio ad una rapida accelerata del ritmo che sale, sale. Si va in iperventilazione, il rush finale è mozzafiato. E perdersi nella concitazione di una caccia al killer  è un’emozione travolgente. Bellissima. Ma bellissimo è anche godere della scrittura, dello stile; de Giovanni scrive meravigliosamente bene, le parole sono pittura di stati d’animo, personaggi, e sentimenti. E per questo abbiamo il dovere di andare piano, riempirci la mente e il cuore di tanta bellezza. Gustiamoci questo banchetto raffinato, non ingurgitiamo con voracità piatti preparati con esperienza e dedizione, assaporiamo lentamente il cibo. Lasciandoci  il tempo di apprezzare l’abilità dello chef.

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