Editoriale

Ho avuto un incubo l'antipolitica vinceva le elezioni

La buona politica non è buona amministrazione, per recuperarla il percorso è lungo ma non impossibile

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

n incubo, ho avuto un incubo: Beppe Grillo che giurava nelle mani del Presidente della Repubblica, come nuovo capo del governo. Vi risparmio il contorno di ministri sciamannati e di volti costernati – nel mio incubo, beninteso… - ma vi lascio immaginare il disastro conseguente a quella presa di potere. Si è molto parlato e molto si parla ancora di partiti e di antipolitica, e l’argomento è ben lungi dall’essere esaurito. Qui mi preme partecipare al discorso pubblico, a partire dalla definizione di “partito” e da una   premessa necessaria:  in un Paese retto da una Costituzione che fa espresso riferimento alla sovranità popolare, i partiti sono uno strumento irrinunciabile per l’esercizio di quella sovranità.

E’ vero: mai nessuno ha pensato seriamente di dare attuazione a quella parte della carta costituzionale - e, in particolare, all’art.49 - che prevede una disciplina legislativa dei partiti stessi, rimasti associazioni private e come tali ammesse – anche a dispetto di un referendum popolare – a usufruire di cospicui finanziamenti pubblici. Di passata, ricorderò che analoga sorte hanno avuto quegli articoli della Costituzione in cui si parla di Sindacati, altri soggetti a metà fra il pubblico e il privato, destinatari a vario titolo di ingenti flussi di denaro – pubblico e privato – senza alcun obbligo di trasparenza nella gestione dei propri beni e senza l’obbligo di sottoporsi ad alcun controllo pubblico.

Non è questa la sede e non è mia intenzione soffermarmi sulle linee guida di una riforma avvertita da tutti come indifferibile: qui mi limito a ribadire che, ancora una volta, il modello della integrazione “pubblico/privato” mi appare irrinunciabile e, in tale contesto, è urgente:

-conferire natura pubblicistica ai partiti;

-sottoporne regole interne, finanziamenti, formazione e approvazione di bilanci, rendicontazione obbligatoria – non basta certo il ricorso a società private per la certificazione dei bilanci! -  ad autorità esterne investite di poteri di controllo, in base a procedure disciplinate da leggi puntuali, munite delle corrispondenti sanzioni;

-ridimensionamento delle strutture dei partiti stessi e, dunque, congrua riduzione dei finanziamenti pubblici (non si vede perché le famiglie e le imprese debbano rivedere al ribasso le proprie spese e i propri investimenti e altrettanto non debbano fare i partiti politici).

Detto questo, non va dimenticata l’esigenza di un adeguato ridimensionamento della politica nel suo complesso – esigenza fin qui sostanzialmente ignorata dai decreti governativi – e che dovrebbe riguardare non soltanto l’assetto istituzionale della Repubblica (riduzione del numero dei componenti gli Organi Assembleari, sfoltimento e revisione – se non abolizione -  del ruolo delle Province, e così via), ma anche l’intricato e oscuro sottobosco delle troppe aziende pubbliche o semipubbliche. Per tacere della necessità di procedere ad un rigoroso divieto di cumulo delle cariche ed allo scandaloso peso dei benefit, delle consulenze, degli sperperi. E lasciamo perdere le infrazioni ai Codici…

Tuttavia, come di regola accade nelle crisi, anche questo passaggio delicato della nostra storia repubblicana offre delle opportunità di miglioramento, con particolare riguardo alle funzioni dei partiti. Malgrado il crollo di credibilità della politica, da più parti – il Presidente della Repubblica in testa – si auspica un profondo rinnovamento, nella convinzione che gli equilibri costituzionali, la libera circolazione delle idee, la stessa partecipazione dei cittadini non possano fare a meno dei partiti. E lo affermo perfino in un momento in cui gli attuali esponenti più in vista della politica stanno dando l’ennesima dimostrazione di insensibilità nei confronti della generale crisi e della crescente indignazione della cittadinanza, arroccandosi in difesa dei rispettivi privilegi, deliberati da loro stessi in epoca di vacche grasse e fin da allora in spregio della volontà popolare.

Non vi è dubbio che la capacità dei partiti di rappresentare la società in vorticoso cambiamento sia andata diminuendo, in particolare nelle ultime due legislature, e che le poche giovani leve arrivate alla ribalta non si siano dimostrate in grado di raccogliere degnamente il testimone. A questo punto, bisogna porsi un interrogativo: che cosa sono, oggi, i partiti? Da quando i rispettivi apparati ideologici, i percorsi storici, i laboratori e le scuole sono venuti meno, questa forma di aggregazione sembra limitata alla formazione di comitati elettorali e vocata alla mera rappresentazione degli interessi di categoria. E sorvoliamo sulle testate e sulle Fondazioni, il cui compito principale sembra essere quello di raccogliere fondi pubblici da destinare a questo o quel “capocorrente”. E poi agitiamo il fantasma delle lobbies! Ma questi “gruppi di pressione” non si occupano appunto della tutela di interessi di parte, ignorando quelli generali ed operando per di più, in linea di massima, al di fuori di ogni regola? Quale sarebbe la differenza rispetto agli attuali partiti?

C’è poi un’altra confusione che domina, di questi tempi, nel discorso pubblico: la cosiddetta “buona politica” pare essere diventata sinonimo della “buona amministrazione”. Ora, dovrebbe essere chiaro che mentre per una gestione corretta ed efficiente delle risorse pubbliche possono bastare dei “tecnici”, altrettanto non si può dire per la politica, quella funzione alta e nobile che organizza il futuro dei popoli, nel culto del proprio passato, in uno scenario internazionale.

In chiusura di queste note, non si possono ignorare alcune suggestioni proposte da una parte del ceto politico: distribuiamo le risorse rivenienti dal finanziamento pubblico alle sedi periferiche dei partiti. Ebbene, dopo aver deplorato la iattanza, la inefficienza, in alcuni casi la disonestà dei tanti cacicchi locali, questo approccio, per così dire, federalista, non sembra proprio poter rappresentare una valida via d’uscita. E allora? Ancora una volta, la soluzione non può che essere di lungo periodo, dovendo passare per la formazione di una nuova classe – generazione – votata alla politica, in un quadro normativo idoneo alla bisogna. Tanto per limitarci ad un solo aspetto: si disincentivino le spese per la propaganda elettorale, e si vincolino quote significative delle risorse – pubbliche e private – al rilancio delle scuole di partito. Il cammino è lungo, ma non c’è alternativa.

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