Maggio Musicale Fiorentino

Fantasmi e inquietudini romantiche sul palcoscenico del Maggio. L’Olandese volante conquista anche la riva d’Arno.

L'opera di Wagner in un allestimento convincente senza troppe eccentricità. Ottima la direzione di Luisi, sabato e domenica Juraj Valčuha dirige Dvořák

di Domenico Del Nero

Fantasmi e inquietudini romantiche sul palcoscenico del Maggio.  L’Olandese volante conquista anche la riva d’Arno.

Nell’allegro con brio iniziale dell’ouverture, ecco la tempesta e il tema dell’Olandese. L’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, sotto la guida ferma e sapiente di Fabio Luisi, precipita lo spettatore in medias res: la tempesta, il clima concitato e l’atmosfera spettrale. La musica e travolgente, tanto che il fastidioso chiacchiericcio in sala si spegne di botto.  Dopo il tema dell’Olandese, destinato a riemergere più volte nel corso dell’opera, ecco quello di Senta, un andante introdotto dai legni con il corno inglese: una melodia luminosa e rasserenante, che possiamo definire il polo positivo dell’opera. Poi, dopo la ripresa della tempesta, ecco il tema dei marinai ….

L’esecuzione della celebre sinfonia, magistrale, trasmette una formidabile carica di emozione e dà l’impressione di una direzione che riesca stupendamente ad esprimere la ricchezza di questa partitura, i suoi colori e impasti strumentali, la sua straordinaria ricchezza. Ma Luisi riesce a mantenere questo stato di grazia per tutto il corso dell’opera? A leggere alcuni commenti relativi alla prima, non sempre.  Senza voler entrare nel merito di più che legittime e spesso autorevoli valutazioni altrui, che tra l’altro si riferiscono alla prima rappresentazione, almeno nella recita di martedì 16 gennaio la direzione è stata forse il maggior punto di forza si uno spettacolo che pure, nel complesso, era più discreto sotto tutti i fronti. Non sarà stato all’altezza delle grandi e memorabili esecuzioni wagneriane del passato, come qualche collega (forse un po’ troppo surciglioso?) ha voluto evidenziare, ma è stato comunque uno spettacolo nel complesso ben riuscito ed in grado di trasmettere emozioni anche profonde. E sicuramente gran parte del merito è dell’orchestra e del coro (anzi, dei cori) condotti da Luisi che ha tenuto un ottimo livello dall’inizio alla fine: un suono nitido e pulito, ottimo rapporto con il palcoscenico, massima cura tanto del dettaglio quanto della straordinaria ricchezza e potenza della partitura, unità drammatica. Poi per carità, si può sempre fare meglio …

Qualche dissenso ha suscitato anche la scelta di dividere l’opera in due parti con un intervallo; è vero che alla prima di Dresda l’opera era divisa in tre atti, ma era stata inizialmente concepita come un unico atto articolato in tre grandi scene. In seguito il compositore revisione più volte la partitura e l’edizione scelta per Firenze è quella del 1860, più o meno definitiva. Comunque sia, la pausa avrà potuto sottrarre qualcosa alla suggestione unitaria dell’opera, ma non è stata affatto traumatica e ha sicuramente giovato al pubblico (e agli interpreti, naturalmente.

Il coro nell’opera ha una funzione importante, evidenziata anche dal tema dei marinai che compare nella stessa ouverture. Il coro del Maggio Musicale Fiorentino (coadiuvato in questa occasione da quello pisano dell’Ars Lyrica) ha dato ancora una volta una splendida prova di sé, sia sul piano vocale che su quello scenica, assecondando una regia nel complesso abbastanza mossa e piacevole.

La regia ormai è diventata un punto dolente  - o se si preferisce, il campo di battaglia preferito – delle recensioni operistiche. Appare in realtà sempre più priva di senso la netta bipartizione tra regia “moderna” e “tradizionale”. Il vero problema oggi è riuscire a mettere in scena uno spettacolo che riesca in qualche modo a non stravolgere o addirittura “violentare” quello che è lo spirito di un’opera d’arte, senza per questo rinunciare a una impronta personale e anche a una pur cauta e possibilmente non gratuita attualizzazione. E’ precisamente quello che a nostro parere è riuscito a fare il regista Paul Curran, che pur collocando l’azione in un periodo non meglio definito del Novecento non è sentito in dovere (grazie al cielo!)  di sfoderare sottomarini e corazzate; anzi, più che di una collocazione nel secolo scorso è esatto forse parlare di un contesto atemporale.  “Nel portare in scena Der fliegende Holländer  un regista contemporaneo deve affrontare molteplici sfide: non solo l’apparizione di fantasmi, e di una nave fantasma, ma, cosa ancor più importante, lo svilupparsi della storia di una donna giovane e fortemente indipendente qual è Senta, molto diversa dalla maggior parte delle eroine di opere o di drammi del suo tempo”

Curran sceglie per il primo atto una regia fortemente “cinematografica” (pratica del resto oggi non inusuale): il mare in tempesta, mentre sulla scena fervono le manovre del vascello di Daland. Poi improvviso, dopo il ghigno spettrale di due teschi, si disegna sullo schermo l’apparizione della nave fantasma dell’Olandese, malconcio veliero (e non nave a turbina) come Wagner comanda. Nel secondo atto al posto della romantica filanda un più moderno filatoio con macchine da cucire, che crea comunque un netto contrato con il clima cupo e lugubre della prima scena; infine, per il terzo atto e per la conclusione del dramma, una scenografia spoglia ma efficace, con una casetta di legno e una scogliera su cui appariranno – sempre con l’ausilio di proiezioni – i marinai fantasma e da cui Senta compirà il suo estremo – e salvifico – gesto d’amore.  Non sarà forse niente di speciale o di sconvolgente, ma ha senz’altro funzionato, non indispettito e anzi ben disposto il pubblico, grazie anche alla sobria e decorosa scenografia di Saverio Santoliquido e ai costumi novecenteschi di Gabriella Ingram. Ottimo anche il gioco di luci di David Martin Jacques che ha contribuito non poco a evocare – modificare – l’atmosfera dei vari momenti del dramma.

Infine, gli interpreti. Cast nel complesso buono, anche se non eccelso, con l’eccezione di Senta della bravissima Marjorie Owens, che ha dato vita un personaggio delicato e deciso contemporaneamente; magnifico lo strumento vocale, duttile e morbido ma anche potente con acuti pieni e ricchi di forza. Difficile valutare la prova di Thomas Gazheli nei panni dell’olandese perché il baritono tedesco era visibilmente indisposto ed è già stato pertanto “eroico” a reggere fino in fondo. Apprezzabile senz’altro la resa del personaggio ma non è possibile dire molto di più.  Dignitoso il Daland di Mikhail Petrenko, dotato di una vocalità pulita chiara anche se non particolarmente incisiva, mentre l’Erik di Bernhard Berchtold non è stato particolarmente emozionante, ma nel complesso abbastanza chiaro e incisivo, anche se un po’ carente nel registro acuto. Discreti anche gli interpreti minori.

Spettacolo dunque decisamente da vedere (anche se purtroppo resta una sola replica, quella di giovedì 17), salutato dal folto pubblico con applausi calorosi e convinti (soprattutto per la soprano) e senza contestazioni.

Sabato 19 gennaio alle 20 e domenica 20 gennaio alle 16:30 i due concerti che vedono protagonista il maestro Juraj Valčuha.  Direttore musicale del Teatro San Carlo di Napoli, Valčuhasalirà sul podio del Maggio per guidare l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino nell’esecuzione dello Stabat Mater per soli, coro e orchestra op. 58 di Antonín Dvořák (il soprano è Simona Šaturová, mezzoprano Gerhild Romberger, tenore Aleš Briscein, basso Peter Mikuláš. Il coro è guidato dal maestro Lorenzo Fratini). È la seconda occasione d’ascolto di uno Stabat Mater nella Stagione Sinfonica 2018/2019 del Maggio che ha già visto Nicola Piovani cimentarsi lo scorso 17 Novembre nel suo La Pietà.

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