Domande sulla via del ritorno

Perché siamo in Afghanistan? Molti dubbi sulla nostra utilità

La politica della Farnesina viaggia sulle gambe del contingente italiano, ma ormai il teatro vero dove essere presenti è la Libia

di Steve Remington

Perché siamo in Afghanistan? Molti dubbi sulla nostra utilità

Perché siamo in Afghanistan ? e sino a quando ci resteremo? Ma soprattutto, cosa abbiamo fatto fino ad oggi? Dopo una settimana ad Herat, nella base italiana di Camp Arena, le domande che mi pongo sono le stesse di quando sono partito. Le risposte che ho trovato, facendo il soldatino fra militari veri, non rispondono a nessuna domanda, ma a fatti oggettivi, concreti, reali.

E allora occorre partire da lì. A fare il militare,  oggi, non finisce più il povero figlio del sud Italia, come vuole l’iconografia di un’ italietta che non si è mai affrancata dall’idea di essere cresciuta, sia pur in modo disomogeneo e anaerobico, ma una bella fetta di quel ceto medio che affolla il centro Italia e una fetta del Nord.

L’unità numerica non è stata certo raggiunta, ma quella sociale, forse, sì. Dunque non più un ripiego, ma un ascensore sociale al pari di chi sceglie di fare l’università. Un po’ più pesante e rischiosa.

«Oggi, al contrario di quello che pensate voi giornalisti, e una bella fetta della cosiddetta società civile, nella forza armata la differenza fra uomini e donne è pressoché annullata», mi racconta un soldato donna, originaria della Calabria, che mi ha appena evitato una botta in testa (tranquilli stavo solo per beccarmi una cassa di un impianto stereofonico), «per la semplice ragione che tutti devono poter fare tutto».

La collega rimasta gravemente ferita nel Gulistan, durante l’attacco alla base avanzata Fob Ice, ne è la prova più evidente. Ma il punto non è tanto questo, quanto il portato di questo livellamento biologico. Oggi l’esercito rappresenta una struttura, ma verrebbe quasi la voglia di parlare d’impresa mobile e plasmabile alle esigenze del momento,  codificabile come la forza lavoro del ministero degli Esteri.

Perché la politica della Farnesina passa attraverso questo mezzo. Che non viene dotato di quegli strumenti  necessari per affrontare, realmente, al meglio il compito loro assegnato. Ecco una delle risposte senza domanda che abbiamo trovato ad Herat: la sicurezza costa, tanto, ma non potendo spendere ciò che non abbiamo facciamo le nozze con i fichi secchi.

Ma essendo il nostro una sorta di dòmino dei perché questa risposta abbatte una delle  domande di partenza. Che ci stiamo a fare? Forse a voler dimostrare di essere grandi, maturi, affidabili, sufficientemente intelligenti.

A due metri da me, nello sala d’attesa dell’aeroporto militare di Herat, c’è un gruppo di militari americani. Arrivano bardati di tutto punto, elmetto, giubbotto antiproiettile,  zaino e M4 con lancia granate. Non sono marines, ma esercito. Si mettono a sedere come sono entrati.

«So’ americani» dico ridendo,  ad un nostro soldato. «Esatto, tanto che si levano l’elmetto dopo cinque minuti che si sono messi a sedere», mi risponde  un maggiore della brigata Sassari, «c’è scritto sul loro manuale. Il giubbotto, poi, chissà quando. Si vede che a pagina due non ci sono arrivati».

Sorrido, il solito italico orgoglio. Cinque minuti, elmetto. Un quarto d’ora giubbotto. Aveva ragione. Forse è davvero il manuale, ma forse è davvero il segno di come gli americani abbiamo interiorizzato la sindrome dell’accerchiamento, finendo col non essere più gli yankee di una volta, ma i meccanici della guerra di oggi. Un po’ troppo meccanici per essere veri. 

«Ormai è diventato difficile lavorare con loro», dice sconsolato il maggiore della Brigata Sassari,  «prima ce ne andiamo, meglio è».

Poi arrivano gli spagnoli, colore e stupore, quanto basta per rallegrare la compagnia. Ma questa non è una vacanza. E se proprio dobbiamo farla, meglio concentrarci sulla Libia, «lì sì che abbiamo interessi e ragioni per esserci», confessa un carabiniere del Tuscania, in partenza per Dubai. Quattro giorni di licenza al mare e al sole.   

Davvero resteremo sino al 2014? Per gli afghani noi siamo un affare, non una soluzione ai loro problemi. Quelli non avranno mai termine, non c’è scadenza. E in fondo quello che potevano fare lo abbiamo fatto. Male o bene poco importa. Conta il fatto che la transizione è in fase avanzata, mentre le risse interne, quelle fra clan rivali, fra etnie sociali diverse fra loro sta correndo come un treno verso la stazione del conflitto sociale.

Perché dobbiamo stare nel mezzo? Perché non tornare a guardare al bacino del mediterraneo con gli occhi di Andreotti, in modo da potersi togliere le lenti graduate introdotte dal governo Berlusconi, affetto dalla sindrome di Down nei confronti degli americani? Da Herat, sul volo verso gli emirati arabi, non riporto gadget o tappeti, ma qualche convinzione in più e qualche domanda in meno.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da NewBalance547 il 15/11/2014 10:40:56

    Xs235New@163.com

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