81°Festival del Maggio Musicale Fiorentino

MUTI E MACBETH: quando la bacchetta raggiunge il sublime.

Uno spettacolo straordinario conclude il festival. Si rinnova e si conferma il profondo rapporto tra il Maestro e la città del giglio.

di Domenico Del Nero

MUTI E MACBETH: quando la bacchetta raggiunge il sublime.

Questa volta non è possibile – almeno per chi scrive – fare una recensione.  Si potrebbero certo evidenziare alcuni passaggi o alcuni tratti distintivi dell’esecuzione, mettersi ad analizzare la prestazione dei vari interpreti; ma a che scopo? Quello a cui il teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha assistito nelle due serate di mercoledì 11 e venerdì 13 luglio scorso non era un “semplice” spettacolo, sia pure d’altissimo livello come sovente il Maggio sa fare (per la parte musicale poi, potremmo dire quasi sempre). Il Macbeth di Verdi (edizione 1865) diretto da Riccardo Muti è stato uno di quegli eventi che segnano la storia di un teatro, di una istituzione culturale e quindi di una città. Forse la perfezione in arte non esiste, o sicuramente è un concetto su cui è difficilissimo concordare; ma un aggettivo può ben essere usato ed  è “sublime”. Termine che fra l’altro si addice in modo particolare a un’opera come il  Macbeth verdiano, in cui l’orrore, il mistero, il senso del sovrannaturale  rappresentano un vertice dell’arte romantica (come prima lo era stato del bardo di Stratford) nonostante i bruttissimi versi di Francesco Maria Piave . Ma a Verdi questo non importava: è bastato il clima di passione e di morte che spirava da quel testo, passione non erotica questa volta ma ancora più tremenda, la  libido dominandi che cancella ogni traccia di umanità, trasforma l’uomo in una mostruosa macchina di morte, come accade per l’appunto al nobile scozzese e alla sua diabolica consorte, consumata infine dalla sua stessa disumanità.  

Non c’è scenografia, l’opera è in forma di concerto, ma la cosa non ha la minima importanza; anzi meglio, perché così l’attenzione è tutta concentrata sul suono.  Muti ha la straordinaria capacità da estrarre da una partitura sia il minimo dettaglio, mettendo in risalto particolari e sfumature insospettate, sia  tutta la costruzione sonora nel suo complesso: la macabra e grottesca atmosfera delle streghe nel primo atto, il vero e proprio vortice musicale del finale primo, il dolore e disperazione di un padre nell’aria di Mcduff ah la paterna mano (atto IV)…. E si potrebbe continuare all’infinito. Muti sembra davvero entrare in perfetta sintonia con tutti, orchestra, coro, solisti; sembra basti un suo semplice sguardo per far scattare alla perfezione  il complicatissimo e delicato meccanismo, che si tratti di un gruppo strumentale come gli archi e i fiati o di tutta la massa orchestrale. E così l’impressione era quella di averla sotto i nostri occhi, la vicenda del nobile scozzese che il diabolico profumo del potere e la cattiva influenza della moglie trasformano in un crudele assassino, che nel giro di pochi istanti vede i peggiori nemici proprio in chi gli è stato fedele e non esita a eliminarlo. La musica sopra ogni cosa, diceva Verlaine: ed è proprio quello che ha fatto Muti alla guida dell’orchestra e del coro del Maggio, trasformati sotto la sua guida in veri maestri del dionisiaco.

E non bisogna dimenticare i cantanti, tutti apprezzatissimi e omaggiati dal pubblico; il baritono Luca Salsi, un Macbeth più debole e tormentato che diabolico (come del resto deve essere), dotato di una ottima voce calda e piena, non scurissima ma capace di varie inflessioni e colori;  Vittoria Yeo, abile nel ruolo della perfida lady, con una voce solida, drammatica e particolarmente efficace nei registri centrale ed acuto. Apprezzabile anche il Banco di Riccardo Zanellato, mentre il Mcduff di Francesco Meli colpisce soprattutto nell’aria Ah la paterna mano, cantata con notevole potenza ed eleganza.

Altrettanto straordinario il rapporto, la vera e propria empatia che si è creata tra il maestro e il “suo” pubblico. E’ come se non se ne fosse mai andato, se quel palcoscenico (che tra l’altro non è più lo stesso) fosse sempre quello che lui ha lasciato nel 1980. Insomma, il legame tra Muti e Firenze è veramente un “possesso per l’eternità”, uno di quegli eventi che fanno parte non della cronaca musicale, ma della storia della musica. L’entusiasmo, gli applausi, le acclamazioni,  ci sono state e ci saranno anche in altri spettacoli ma in quelle sere c’era qualcosa in più: c’era la gioia di un pubblico che si sente in comunione con il suo teatro e con un grande artista in particolare. Ma Muti, che pure avrebbe potuto benissimo – e meritatamente – essere la star della serata, ha dato anche in questo uno splendido esempio di grandezza, non mettendosi mai troppo in evidenza e preferendo lasciare spazio all’orchestra, al coro, ai cantanti; raggiungendo il massimo nella seconda serata, quando ha voluto lui stesso accompagnare al proscenio due artisti del coro che terminavano la loro carriera.  “Andate più a tempo del pubblico del concerto di capodanno”, ha commentato scherzosamente il maestro il ritmo cadenzato degli applausi. Un altro piccolo segno di un grande legame che si spera lo riporti presto  sul podio fiorentino.

 

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