Maggio Musicale Fiorentino

ALCESTE: il trionfo dell'amore coniugale.

Il capolavoro di Gluck e Calzabigi sul palcoscenico operistico fiorentino. con la regia di Pier Luigi Pizzi e la direzione musicale di Federico Maria Sardelli.

di Domenico Del Nero

ALCESTE: il trionfo dell'amore coniugale.

Gluck e Calzabigi, ovvero la nuova riforma del melodramma dopo quella metastasiana. E se questa rimane essenzialmente legata al nome di Pietro Metastasio, la seconda coinvolse invece tanto il poeta quanto il compositore:  Christoph Willibald Gluck ( 1714 - 1787) e Ranieri de Calzabigi ( 1714-1795) furono infatti artefici alla pari di una nuova concezione drammatica che, pur muovendo sempre dal primato della poesia sulla musica, voleva superare l’eccessiva rigidità della separazione tra aria e recitativo, che faceva tra l’altro sì che il primo venisse sempre più trascurato dai cantanti ansiosi di giungere al loro “pezzo di bravura” per mettere in bella mostra tutto il loro talento.

“A Monsieur Calzabigi il maggior merito: se la musica ha incontrato qualche favore tra il pubblico, mi sento obbligato ad ammettere che a Lui debbo tale successo, a Lui che mi offrì la possibilità di sviluppare le risorse dell’arte mia.” Così il compositore boemo scriveva in una lettera del 1773, ma non c’è dubbio che il discorso possa e debba essere reciproco: Calzabigi poté fare affidamento sull’impeto della musica di Gluck; e il fatto che le due opere principali della riforma, Orfeo ed Euridice e Alceste, siano rimaste saldamente in repertorio ha dato al poeta livornese un indubbio vantaggio sul pur più blasonato e “cesareo” Metastasio.

Ed è proprio Alceste che Mercoledì 21 marzo ha fatto la sua apparizione sul palcoscenico del Maggio Musicale Fiorentino, dove resterà per altre tre recite sino al 30.  L’allestimento è quello coprodotto dal Maggio Fiorentino e la Fenice di Venezia, firmato da Pierluigi Pizzi e con la direzione di Federico Maria Sardelli, grande specialista del Barocco ( ma non solo) e di Vivaldi in particolare. Si tratta della versione  proposta nel tricentenario della nascita del compositore ; già autore di tre famosi allestimenti dell’opera, nel 1966 a Firenze (versione italiana, con la regia di Giorgio De Lullo), nel 1984 a Ginevra (versione francese) e nel 1987 alla Scala (versione italiana), Pier Luigi Pizzi torna una quarta volta su Alceste, nella versione originale in italiano andata in scena al Burgtheater di Vienna nel 1767, di cui firma la regia, le scene e i costumi e che mostrerà un impianto scenico ridotto all’osso con spazi ben definiti.

La coppia Gluck – Calzabigi operava dunque in quella corte viennese che già aveva visto sorgere l’astro metastasiano. Era stato il conte genovese Giacomo Durazzo, direttore dei teatri di corte, a chiamare a Vienna il compositore boemo con l’incarico di arrangiare per il pubblico viennese opere  francesi; e chiamò anche il letterato Calzabigi, fresco di soggiorno parigino.  Fu così che poté avvenire l’incontro che portò nel 1762 alla nascita di Orfeo ed Euridice: un testo che, al di là dell’apparato mitologico, fu concepito dal librettista proprio per far risaltare le passioni elementari ed umane di Orfeo, con una azione incentrata sui due personaggi principali, sfrondata da qualsiasi divagazione collaterale e con l’intervento del coro.Tra le importanti innovazioni, Calzabigi tende ad evitare la doppia aria metastasiana con il tradizionale da capo; preferisce infatti rappresentare un affetto “in divenire” piuttosto che l’astratta contemplazione metastasiana. Ma l’innovazione più importante è forse quella che riguarda il recitativo; al posto del dialogo razionale e incisivo dei versi metatasiani, destinati al recitativo secco, il poeta livornese fornisce al musicista un materiale che si presta ad essere trasformato in un canto ben più mosso e vario; un testo fatto di esclamative e interrogative, sostenuto dal continuo accompagnamento orchestrale. Ed è proprio la prefazione all’Alceste (firmata da Gluck, ma redatta da Calzabigi) che esprime in pieno le idee riformatrici dei due: idea cardine è che nel rapporto musica poesia la preminenza spetta alla seconda (principio base di tutto il razionalismo classicista), ma l’arte dei suoni può ben arricchire l’espressione degli affetti, purché dosata e con saggezza e senza “inutili superflui ornamenti”.

I due artisti partono dunque dalla rivoluzione del binomio recitativo aria: quest’ultima è sempre in posizione rilevante, ma non più esclusiva all’interno della scena; anzi è proprio il concetto di “scena” che viene superato e sostituito da grandi “pannelli drammatici” formati non solo da arie, ma anche da cori, danze e pezzi strumentali. Tale impostazione comportava l’abbandono di soggetti storici e drammi d’intrigo, cari a Metastasio, e l’attenzione invece al mito e alla tragedia greca, in modo inserire i cori e gli elementi spettacolari in una azione costituita da pochi ed essenziali momenti chiave.

Alcesti  è realizzata  con una cura estrema della scrittura sia strumentale che vocale, che rinuncia a qualsiasi concessione “edonistica”; la rinuncia al virtuosismo sottolinea soprattutto il valore espressivo della parola, con un “ritorno alle origini” che può richiamare la Camerata de’Bardi.

La versione viennese dell’opera si articola in quadri scenici monumentali, caratterizzati da una simmetria di strutture accuratamente bilanciata e da un calcolato sistema di nessi tonali. La solennità da tragedia greca è conferita dal fondamentale ruolo del coro, che proprio come nell’antico dramma attico scandisce con i suoi interventi i momenti fondamentali della vicenda. Nel 1776 Gluck rappresenterà a Parigi una nuova versione del dramma, sicuramente più mossa e dinamica e che fa perdere al  testo un po’ della sua eccessiva staticità,  minandone però la tragica compostezza originaria.

Alceste

Opera lirica in tre atti

Libretto di Ranieri de' Calzabigi tratto dall'Alcesti di Euripide

Musica di Christoph Willibald Gluck

Allestimento in coproduzione con Fondazione Teatro La Fenice di Venezia

Versione originale in italiano, Vienna 1767

 

 

Direttore Federico Maria Sardelli

 

Regia, scene e costumi Pier Luigi Pizzi

Luci Vincenzo Raponi

Maestro del Coro Lorenzo Fratini

 

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino

 

Alceste Nino Surguladze

Admeto Leonardo Cortellazzi

Evandro Manuel Amati

Ismene Roberta Mameli

Un banditore/Oracolo Adriano Gramigni

Gran Sacerdote d’Apollo/Apollo Gianluca Margheri

Eumelo Sebastiano Siega/Pietro Beccheroni (25, 30)

Aspasia Arianna Fracasso/Costanza Mottola (25, 30)

Date; 

Mer 21 marzo, ore 20:00
Dom 25 marzo, ore 15:30
Mer 28 marzo, ore 20:00
Ven 30 marzo, ore 20:00

 

 

La trama dell’opera (fonte: http://www.operamanager.com/cgi-bin/process.cgi)

L’azione si svolge nella città di Fera, in Tessaglia. Il popolo è triste e angosciato per il misterioso male che sta uccidendo il re Admeto (“Ah di questo afflitto regno”). Spronati dalla regina Alceste e guidati dal Gran Sacerdote, tutti si recano al tempio di Apollo per offrire sacrifici. Ma la risposta dell’Oracolo è lapidaria e terribile: «Il re morrà, s’altri per lui non more». Tutti fuggono atterriti (“Che annunzio funesto”), tranne Alceste, che medita di sacrificare se stessa per amore del marito (“Ombre, larve”). Il secondo atto si apre in un’orrida selva, il luogo scelto da Alceste per offrirsi alle divinità degli inferi. I numi accolgono la sua offerta e acconsentono alla richiesta della regina di rivedere per un’ultima volta i suoi cari. L’azione si sposta quindi nel palazzo reale, dove si sta festeggiando la repentina guarigione di Admeto (“Dal lieto soggiorno”). Ogni gioia sparisce quando Alceste, dopo molte esitazioni, rivela all’incredulo consorte di aver sacrificato la propria vita per salvare la sua. Admeto, sconvolto, non vuole accettare lo scambio e intende tornare all’Oracolo per rifiutare l’offerta (“No, crudel”). Alceste dà il suo ultimo, struggente saluto ai due figli (“Figli, diletti figli!”). All’inizio del terzo atto Admeto comunica al fido Evandro che i numi non accettano che il re prenda il posto della sua sposa. L’ultimo, toccante addio tra Alceste e Admeto è interrotto dall’arrivo delle divinità infernali, che trascinano via la regina. Tutto il popolo intona un commosso lamento (“Piangi o patria!”). Ma mentre Admeto manifesta la volontà di morire per seguire la sua sposa, a stento trattenuto da Evandro e Ismene, un improvviso bagliore segnala l’arrivo del dio Apollo: gli dèi hanno avuto pietà del dolore di Admeto e del sacrificio di Alceste e Apollo rende la regina al suo consorte, ai figli e al popolo. L’opera si chiude con un coro di lode per la virtù di Alceste (“Regna a noi”).

 

 

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