Editoriale

Gramsci fra Mussolini e Togliatti

Le ricerche d'archivio dimostrano che il Duce in carcere non ostacolò l'attività del pensatore sardo, mentre il segretario del Pci ne sovrainterpretò il pensiero

Mario  Bozzi Sentieri

di Mario  Bozzi Sentieri

a scandalo l’idea di un Benito Mussolini, che, negli anni del massimo consenso, permette ad Antonio Gramsci, l’intellettuale comunista per antonomasia, di  compilare i  suoi “Quaderni”, prima in carcere, poi in clinica, dove viene ricoverato dal dicembre 1933 e dove muore il 27 aprile 1937. A parlare sono i fatti ed il rigore di uno studioso “gramsciano”, Franco Lo Piparo, che, carte alla mano, ha rivelato come sia proprio grazie a Mussolini che Gramsci ottiene, già nel carcere di Turi, di leggere i libri richiesti, necessari per le sue ricerche: “Gramsci – ha dichiarato Lo Piparo, in un’intervista pubblicata su “il Giornale” - scrive direttamente a Sua Eccellenza Benito Mussolini, Capo del Governo e l'autorizzazione alla lettura arriva. Tra i libri richiesti si trovano le opere complete di Marx ed Engels, opere varie di Trotsky, l'edizione francese delle lettere di Marx a Kugelmann con prefazione di Lenin. Non pare proprio che Mussolini abbia voluto impedire al cervello di Gramsci di funzionare”.

Dovrebbe piuttosto fare scandalo l’opera manipolatoria da parte di Palmiro Togliatti, che – di fatto – abbandonò Gramsci al suo destino, strumentalizzando, nel dopoguerra, l’opera gramsciana, facendone il manuale di riferimento della via italiana al socialismo ed il lucido interprete dell’”egemonia culturale”.

Al di là delle contingenze storiografiche, la nuova attenzione nei confronti di Gramsci, con un Mussolini a cui viene finalmente tolta la casacca del becero aguzzino nei confronti dell’intellettuale, può essere un’utile occasione per riprendere, non solo “a sinistra”, la riflessione sugli aspetti metodologici della teoria gramsciana. Ci sono, al riguardo, pagine esemplari, scritte da Alain de Benoist alla metà degli Anni Settanta del ‘900, che mantengono intatta la loro attualità, laddove evidenziano il ruolo (potenziale) svolto dagli intellettuali in seno alla struttura sociale, il potere dei mass-media, la seduzione degli opinion leaders, la forza degli spettacoli e delle mode, nel “lento scivolamento delle mentalità  – ha scritto de Benoist – da un sistema di valori verso un altro sistema di valori”.

Gramsci – su questa scia - appartiene al “fardello” intellettuale di una gioventù anticonformista che, sempre durante gli Anni Settanta del ‘900, da destra, ma oltre la destra e la sinistra, fece dell’autore uno strumento per l’azione metapolitica.

All’epoca Gramsci era spesso inserito nei programmi universitari, difficile sfuggirgli per chi frequentava Lettere o Scienze Politiche. Lo dovevamo insomma  studiare, pur non condividendone le idee di fondo. Ma sulla sua metodologia, sulla distinzione tra “società civile” e “società politica”, sull’idea di “egemonia culturale”, premessa per la conquista di uno stabile potere politico, niente da dire, ne restammo affascinati, iniziando – da parte nostra – a tirare le conseguenze e provando a “sentirci nuovi”, proprio  sulla base di  quelle intuizioni di fondo.

Si parlò allora e lungo tutti gli Anni Ottanta di “gramscismo di destra”, creando un po’ di fraintendimenti (a destra) e più di qualche indignata reazione (a sinistra). La linea comunque era stata tracciata e Gramsci finalmente inserito nell’ “Ideario Italiano”.

Scoprire, oggi, un rinnovato interesse intorno alla sua figura non può che farci piacere, non certo per cullarci nell’ennesima rievocazione generazionale, quanto per invitare a  ritrovare i percorsi culturali della “Rivoluzione italiana” e dunque a recuperare  “trasversalmente” l’intellettuale sardo, finalmente riconsegnato alla verità storica.

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