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NELLA NEBBIA DI QUEI LONTANI ARCIPELAGHI

Leyla Kioma e i poemetti settidecasillabi

di Piccolo da Chioggia

Leyla Kioma e i poemetti settidecasillabi



Avevo detto in altro capitolo su dei poemetti che ora voglio aggettivare alla latina con un termine che suona negli accenti quasi fosse scandito dai legionari in marcia: poemetti settidecasillabi. Ne ho scoperti di nuovi. La poetessa è Leyla Kioma e compie il prodigio di far nascere italiche composizioni la cui origine dall’Estremo Oriente sfuma nella nebbia di quei lontani arcipelaghi costellati di scritture e templi di antica bellezza.

 

Cedo alla dizione ampollosa ma in fondo che importa ciò se le mie linee si mantengono serrate entro brevità futurista e solo devono introdurre nuove immagini espresse con lingua cristallina da questa poetessa di lontana ascendenza germano-boema?


Qualche notizia intorno alla Kioma non può che suscitare un curioso interesse per le strampalate vicende lungo le quali si è stratificata la storia della nostra penisola, una volta che l’impero voluto da Cesare e consolidato da Augusto cedeva e per collasso naturale attuava un trapasso di forme che avrebbe lasciato allibito anche il povero Ovidio abituato ai trucchi più inconsueti di quell’arte che va sotto il nome di “metamorfosi”...


Una stirpe il cui nome è Kioma o con lieve adattamento alla nostra pronuncia Chioma non è, a dispetto del suono che evoca la criniera delle fanciulle romane, latina. Avveniva che nel tempo di un Metternich, pentito di non aver sufficientemente meditato un escamotage per salvare Napoleone e la sua stirpe germano-italica sul trono e deluso della buaggine subito mostrata dalle case legittime, si rendesse necessaria una gendarmeria europea per salvaguardare il restaurato ordine e salvare il trono concesso per grazia divina a imbelli regnanti. Sono le note vicende della Santa Alleanza. Il Maresciallo dell’Asburgo Windisch-Graetz poneva a guardia un suo stato maggiore in quel di Fermo, nelle Marche leopardiane, coll’armata ben temprata dalle recenti guerre, a che gl’infiammati dell’Italia unita non facessero rivolte o attuassero sommovimenti sotto coperture di carbonari.


La memoria regionale non riporta dell’augusto Maresciallo austriaco un profilo tale da poterlo ascrivere ai grandi condottieri, ai “Feldherren”, della storia militare germanica, e piuttosto s’indugia con l’impareggiabile grazia della provincia italiana a trarre dal nome del bravo Windisch-Graetz il sostantivo d’una vivanda, i “vincisgrassi”, una vera delizia pei ghiottoni dell’universo, sorta di vols-au-vent ma più raffinati nella loro semplicità romanica dei loro consimili francesi. I vincisgrassi pei quali è plausibile immaginare si trovassero alla mensa del Maresciallo e che la loro ricetta venisse insegnata alle cuoche locali che di sicuro l’hanno migliorata e adattata al nostro gusto ben più lieve di quello piuttosto rude del Centro Europa, vanno riempiti di prosciutti o carni grasse le quali sono però da involgersi in qualche buona verdura atta a potenziarne il sapore e a propiziarne l’ingurgito. È un cibo non proprio mentale in senso lato ma che le massaie italiane, quando abbiano la buona volontà di porre in atto il loro genio innato, possono trasformare in una magnifica ghiottoneria dalla matrice e dal ripieno puramente latteo-vegetariani. Con l’effetto di creare dei vincisgrassi che siano, come è detto in sanscrito, perfettamente “sattvik”.


Avveniva dunque che il corpo armata dell’Asburgo oltre a lasciare la deliziosa vivanda lasciasse pure qualche soldato o forse graduato che conquistato dalla bellezza delle puelle marchigiane ivi si sposasse dando origine ad una linea di discendenza italo-germanica. Questa la ragione dell’inusitato e raro cognome della poetessa, che invece è ancor oggi ben attestato in quello che era il crinale dei Sudeti austriaci.


Qualche altra notizia su Leyla Kioma non stona affatto perché rende palese quell’intricatissimo e bello aggrovigliarsi che è la nostra storia: da Fermo un ramo dei Kioma digradava a mare stabilendosi a San Benedetto del Tronto, ultima villa delle Marche prima di inerpicarsi per strade panoramiche a quei marziali borghi di Colonnella e Controguerra dai quali si ammirano in una visione che toglie il respiro il mare Adriatico e, a capo voltato, il massiccio della Laga e, lontano, regale, il Gran Sasso sempre mantellato di bianco.


Non è usuale ora che un ragioniere finisca per divenire ufficiale di marina ma questo è appunto il caso di Armando Chioma o, volendo onorare l’ascendenza sudeta, Hartmann Kioma, il padre di Leyla. Questi per le continue vie traverse che ricorrono in ogni buona stirpe che viene ad albergare sotto il cielo d’Italia ha finito per trovarsi in ragione dell’impiego, sia pure in divisa, nella costa opposta a quella d’origine ovvero su quella ligure e di preciso nella città baluardo della marina militare, La Spezia. Qui all’ufficiale di commissariato se non si apriva la gran carriera avventurosa di un assaltatore destinato ai sommergibili o al naviglio da guerra quantomeno vi era da potersi sposare avendo un ufficio sicuro, per quanto grigio, e da alimentare il nido che si sarebbe inaugurato.


Anche sulla madre di Leyla vale di saper qualcosa perché di nuovo riappare il generoso intrico di storie di cui si è già argomentato. Dal nome, Gilda Anita dei Galluzzi di Capramozza si può, con il sussiego demodè ma ancora in voga nei tardi anni 30, soprattutto in una città con forte aliquota di ufficiali ed impiegati, dedurre una origine nobile più o meno lontana ed approssimata ancorchè non troppo in arnese dal punto di vista che è decisivo tanto allora quanto oggi: quello finanziario. Tralascio volutamente il fatto che davvero vi è un libro conservato all’Archiginnasio nel quale son raccontate le scorrerie ribalde dei Galluzzi di Capramozza avversari acerrimi dei Carbonesi nella Bologna medievale e supportate persino dalla memoria delle strade. Basti sapere che saliti dai portici del Pavaglione, dietro l’augusta cattedrale di San Petronio e voltando a destra per avviarsi al collegio di Spagna, si percorre un’elegante via porticata che al termine del passaggio coperto si è ristretta per divenire Via de’ Carbonesi. Da qui si arriva in pochi passi ad una piazzetta sulla quale si affaccia un portale del collegio suddetto. Al lato settentrionale della piazzetta una viuzza conduce ad un gioiello di chiesetta finemente decorata a dispetto delle sue dimensioni di capanna dei boschi. E il nome della viuzza, via Val’d’Aposa rammenta che di qui o nei pressi scorreva il rio Aposa, un corso d’acqua la cui sorgente è sui colli vicini ma il cui nome pare antichissimo e troppo simile al sanscrito Apas, acqua, per far pensare ad un semplice caso d’affinità di suoni. In prossimità di questa via Val d’Aposa vi è ancor oggi una Corte Galluzzi. Se dalla piazzetta sopra rammentata si imbocca in direzione meridionale, quella verso i colli, la via Nosadella, si sbuca ad uno slargo della via Saragozza sul quale si versano, come farebbero in un laghetto dei ruscelli ora ridotti a soli ciottoli, alcune viuzze delle quali una appunto è la via Capramozza. Le distanze da via Carbonesi a via Capramozza, o dalla via Carbonesi alla Corte Galluzzi nonostante l’arzigogolo della descrizione qui data non vanno oltre un duecento metri. Quelli ideali per farsi una guerricciola intestina tra fazioni dedicandosi a delle scorribande notturne con cavalli e lanciando dardi incendiari per colpire delle case avverse, centrando una finestra, le travi interne in legno…    

     

Sta di fatto che rovinata senza appello una delle due fazioni, questa doveva prendere asilo altrove e per il ramo Galluzzi di Gilda, con il passare dei decenni che si accumulano in secoli, Parma diviene l’asilo finale. La memoria dei nonni materni di Leyla tramanda che nella capitale del Ducato di Maria Luigia d’Asburgo, un Galluzzi fosse divenuto o impiegato civile dell’amministrazione o, forse, soldato della piccola armata ducale. Avviene che le cose spesso, attraverso il cannocchiale del tempo e del ricordo che è frammentario per costituzione, si frantumino ulteriormente e nulla ci impedisce di immaginare da questa memoria fatta di “o” e poi di nuovo “o” un dipanarsi del filo ben più lineare: è possibile dunque che l’avo materno di Leyla dopo aver esercitato con onore il mestiere delle armi sia stato, in vista della pensione, assunto dall’amministrazione civile in guisa d’impiegato.


Dal Ducato di Maria Luigia al baluardo marittimo di La Spezia è agevole la via ed intenso il traffico. Unita l’Italia, più o meno bene e più o meno con senno, avviene che un discendente del bravo impiegato o soldato di Maria Luigia cerchi maggior fortuna nella villa sul mare e qualcosa deve essersi conservato di discrete referenze e attitudini perché si può documentare che proprio il bisnonno Galluzzi di Leyla raggiunge la pensione con il grado di brigadiere capo della guardia municipale di Spezia. Di qui il resto trascorre in cronaca ed è appunto nella città ligure che le due stirpi, quella italo-germanica dei Kioma e quella esule bolognese dei Galluzzi si uniscono dando origine al nido dal quale proviene la nostra poetessa. 


A quale esatto ricordo si leghi il poemetto settidecasillabo che segue non si può con precisione dire. Ma una traccia sembra volerci riportare all’Adriatico dei Kioma.


Alba


In tutù rosa

danza la ballerina

lieve sul mare.   

                                                          

La fanciulla delle Marche leopardiane affacciate ad oriente sul mare, che partorisce ogni mattino il disco solare infuocato, traduce in poesia e senza saperlo il caso, uno dei tanti, d’un altro Oriente: in un inno rigvedico Ushas, la divina Aurora è appunto la ballerina e di poi si fa la guidatrice del coro delle ballerine. Allusione forse alle tremule nubi rosate del primissimo mattino che fluttuano al vento? O alla luce delle ultime stelle della notte che al primo chiarore dell’alba affievolendosi tremano per poi occultarsi nel cielo già chiaro? Ma qui è necessario ricordare e celebrarlo, non fosse che per un solo istante, il De Gubernatis che nel suo “Letture intono alla mitologia vedica” ha consegnato alla nostra favella un bel riassunto delle tante forme che assumono quei lontani Numi e che ancora risorgono in connessioni inaspettate grazie alla poesia. Ora l’Aurora è ballerina ma di poi i suoi fratelli, i gemelli Asvini le cedono le briglie e le danno l’agio di essere almeno per un poco la guidatrice del carro a tre ruote sul quale fanno le loro scorrerie celesti. O ancora la divina ballerina, cui il cantore rigvedico inneggia ammirato con quest’immagine


tu bella lucente coi tuoi splendori ti scopri il petto


e fornita di agili cavalli si avanza, scrive il De Gubernatis con una nota erudita tratta dal famoso “Dizionario Petropolitano”:

vom Jubel der Roße begleitet

ovvero accompagnata dal giubilo dei destrieri.

Certo è avvenuto che i cavalli, creature sensibili e stizzose abbiano percepito pei loro sensi sottili che ora le briglie non erano più nelle mani dei gemelli divini ma in quelle delicate della sorella e di qui esplode la loro gioia per il semplice innato istinto del mutare, del non essere sempre i medesimi, del non esser incatenati a catene che seppure sostanziate d’oro celeste pur sempre restano catene…   

Si vorrebbe sapere come è vestita questa bella Aurora che si scopre il petto. Fra le invenzioni settidecasillabe di Leyla ve n’è una alquanto temperante del culto del sontuoso, che spesso deborda nell’inutile e nel dannoso,

e descrive la semplice modestia che immaginiamo nell’abito di fanciulla di Ushas, coraggiosa proprio perché pure se non carica del vigore guerriero di Indra è stata pronta a farsi guidatrice d’un carro che in fondo percorre sentieri vertiginosi…


modesta veste

dissimula sovente

vero coraggio


Ma forse avviene che anche la fantasia di chi legge divaghi troppo. Non vi è colpa in ciò, è solo un semplice cedere a immagini che le frustate dei poeti imprimono troppo nella mente dei poveri lettori non toccati dal dono delle Muse. Occorre essere indulgenti e in ogni caso augurarsi che sempre vi siano poeti anche se la loro compagnia finisce per condurvi in guisa di dittatrice errabonda fra immagini e visioni. E la visione di Ushas in tutù rosa diviene una sorta di chiodo fisso e succede quel che racconta un altro poemetto settidecasillabo


come un granello

di sabbia un pensiero

blocca la mente


ma se anche dura troppo e purchè sia poetico non fa male e quindi non vi sono esagerate controindicazioni.

Dunque rassegniamoci a divagare e immaginiamo una Bologna d’altri tempi ancora solcata dai vari rii che allora portavano le acque fin entro il centro murato. Possiamo credere di essere sul far della sera sulla riva del rio Aposa con due brocche per prendere dell’acqua fresca di sorgente. Perché assetati o per trovare nel fluido trasparente un lenimento a qualche malanno. Non recita una antica massima della medicina vedica


apashcavishvabeshajii  


ovvero che “l’acqua è medicina per tutti mali”? Ma qui il poemetto si allunga ben oltre il limite del settidecasillabo e diviene una versione latina di quei poemetti dell’Estremo Oriente che noi possiamo ora rinominare in fedeltà di forme “dei gondolieri” e si sofferma sull’effetto dell’ombra che induce a prestare attenzione perché i colori sfumano tutti nel tenue lume del crepuscolo


La brocca nera

e la brocca blu. Come

distinguerle se

gli occhi non scorgono

bene nell’oscurità?


Da una brocca usiamo dell’acqua per bere e per trarne lenimento e però, nell’oscurità che distende lenta il suo mantello blavo e anticipa la coltre notturna rammentiamo, che pure alle piante è necessaria, calato il sole, la cura e la gratitudine per i frutti che esse ci danno. Nel poemetto settidecasillabo di Leyla il gesto lento del versare l’acqua su foglie e radici si mostra nella sua cadenza che pare quasi assonnata e al contrario è ben vigile nella contemplazione di un mondo di forme e colori, di un firmamento minuscolo che specchia quello celeste che sta per sopraggiungere con la notte


Annaffiare con

pazienza è segreto

del giardiniere.


La poesia serve a null’altro che rammentare della nostra più remota nascita? È possibile perché in essa si annullano le determinazioni di spazio e tempo e gli enti che essa porge quale immagine finiscono per stabilirsi nella nostra mente in guisa di figure perenni.


La poesia dunque diviene semovente e una volta impressole il moto, essa fluisce come il perpetuum mobile sul quale fantasticarono i fisici. Ricordo di aver visto, ora è qualche tempo, un anziano operaio che, seduto sul ciglio d’una aiuola in una villa di Gavinana Pistoiese, dopo aver svolto i suoi uffici di giardiniere paziente, all’ombra degli abeti consumava un tozzo di pane su cui distendeva delle fette d’un salame piccante uso dei luoghi della montagna. Poggiato sul ghiaino accanto le pietre che delimitavano l’aiuola un fiasco di vino Chianti. Certo la vivanda non era quello che si dice sattvik ma nell’immagine indotta dalla lenta cadenza del poemetto settidecasillabo la memoria si affina sul piccolo quadro del paziente e anziano giardiniere seduto, e le pietre grigie, il sangue d’uva nel fiasco, le fette piccanti perdono il loro carattere specifico e divengono cosa pittorica. E si fondono senza confondersi in un ricordo sempre più preciso, con i fiori delle aiuole ben curati.


Ecco un altro poemetto da legarsi ai precedenti nel proseguire il moto


La Via dei fiori.

Variopinta saggezza:

dono dei numi

la via dei fiori? Da intendersi con il senno di dottrine dell’Oriente certo. Ascesi della bellezza da coltivare, tanto nell’impratichirsi a conoscere la silente vita delle specie botaniche che esprimono il loro “stemma” nella corolla del fiore, quanto nella composizione di essi entro il vaso con arte, per ricreare “in vivo” i quadri che già divennero argomento dei maestri pittori olandesi. Proprio di questi ultimi e nel senso appunto di ascesi scrive in un capitolo del suo capolavoro, “il mondo come volontà e rappresentazione”, Arturo Schopenhauer.


Tante volte si è letto in scritture classiche di soldati di un’armata sconfitta che laceri vagavano per la campagna in ritirata. Avvenne dopo la Trebbia per gli antichi Romani. Non diversamente è avvenuto dopo Waterloo, e però chi può dire che proprio sotto i panni sbrindellati di molti dei fuggitivi non vi fossero valorosi combattenti che avevano dato del filo da torcere ed aspro avevano reso il trionfo ai vincitori?   

Un uccelletto

spennacchiato rivela

un combattente.


La poetessa che discende dal soldato dell’Asburgo trasfonde qui ed ora una sentenza che contrasta la retorica ed estende il senso eroico oltre le pianure degli eserciti, oltre gl’incendi delle grandi battaglie.

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