Editoriale

È il momento di fare chiarezza oltre i luoghi comuni: Islam e occidente un rapporto da chiarire

Inutile fare appello all'islam moderato contro quello fondamentalista, ma certamente non si può demonizzare una cultura che è stata grande, esattamente come la nostra che dobbiamo difendere

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

ncora una volta, dopo una nuova strage islamista, si ripropone l’esigenza di superare la pur inevitabile emotività, per cercare di analizzare quello che ormai da molti anni si segnala come uno dei problemi cruciali del nostro tempo: i rapporti con l’Islam e in particolare con la sua interpretazione più intollerante e cruenta. Certo, non è facile, in questi giorni, tenere a bada le emozioni, specie per chi, come me, ha Parigi nel cuore e in quella città si è trovato a far germogliare alcune diramazioni della propria biografia, fino a possedervi una casa e a contarvi non pochi amici. Ancora una volta, dopo la strage di Charli Hebdo, il sangue di tanti francesi, ma anche di tanti stranieri residenti, è tornato a scorrere a poche centinaia di metri dalla mia casa; ma oggi, più che mai, abbiamo percepito il pericolo di un’intrusione e di un’alterazione della nostra esistenza quotidiana. Ho rivisto così in una cornice tragica la chiesa dove vado a messa nelle mie domeniche parigine, il bar dove spesso ho preso il caffè, il ferramenta dove ho duplicato le chiavi dell’appartamento, il boulevard dove andai in cerca dell’indirizzo immaginario- eppure così “reale” - dell’amato commissario Maigret.

Le emozioni, dicevo; e poi il fiume di commenti, di analisi, di auspici e previsioni. Io qui vorrei premettere alle mie considerazioni sull’argomento due pregiudiziali, per così dire, terminologiche: smettiamo di definire “kamikaze” gli assassini-suicidi che agiscono nel nome dell’Islam. I kamikaze erano soldati e ufficiali che s’immolavano per la patria in guerra, colpendo unicamente obiettivi militari, senza mai, dico mai, coinvolgere i civili. Ignorare una tale differenza non è soltanto superficiale: è colpevole.

In secondo luogo, non posso che deplorare l’uso liberatorio del termine “terrorista”, per designare gli aguzzini dell’ISIS: il terrorista è altro da noi; eppure il terrore è uno strumento, utilizzato molte volte nella storia dell’umanità, da parte dei soggetti più diversi, dagli Stati agli Imperi alle più disparate aggregazioni religiose e ideologiche. Quello che è importante in chiave d’interpretazione della storia, dell’attualità e del futuro, è individuare il contesto ma, soprattutto, le finalità di chi al terrore fa ricorso sistematico nelle proprie iniziative.

Certo, il nodo di queste problematiche è duplice, e molto difficile da sciogliere. Da un lato, ci sono gli aspetti legati alla politica internazionale e, in primo luogo, agli equilibri nell’area, con tutto l’intrico di rancori, spirito di rivalsa, diffidenza ed enormi interessi concreti. Su quel terreno, con le remote e contrapposte cabine di regia negli Stati Uniti e in Russia, s’ingarbugliano i fili che conducono alla Turchia, all’Iran, alla Siria, al Libano, agli Emirati, alla Libia, ad Israele, ai Territori Palestinesi, all’Egitto. Gli stessi schieramenti religiosi non bastano a definire posizioni e aspettative: non è più possibile semplificare lo scenario rappresentando l’antico conflitto fra sunniti e sciiti, perché le contrapposizioni sono diventate trasversali, col pretesto dell’ortodossia, sbandierato da ciascuno dei contendenti. Al riguardo, appare fuorviante la litania - recitata anche da osservatori acuti e preparati – che ripete come al centro della scena si agiti un conflitto “intramusulmano”: questa è solo una parte delle evidenze, sullo sfondo essendoci la volontà dichiarata dall’ISIS di voler riconquistare i territori perduti dell’antico califfato, sottraendoli agli attuali “occupanti” cristiani (non si dimentichi che sono stati definiti “crociati” perfino i poveri turisti massacrati al museo del Bardo!).

Ora, proprio la strage di Parigi ha messo sotto gli occhi di tutti, anche di quelli che si ostinavano a negare che fosse in atto una vera e propria guerra, una svolta decisiva. Per la prima volta dopo le Torri gemelle, ci siamo infatti trovati di fronte ad un’autentica strategia di assalto sul territorio nemico, ben al di là degli attentati e dei conati di guerriglia urbana. Alle classiche operazioni militari di conquista territoriale, per ora limitate a parte dell’Iraq, della Siria, della Libia e dello stesso Sinai, conteso all’Egitto, si stanno affiancando attacchi di commandos coordinati, capaci di eludere i servizi di “intelligence” e gli stessi controlli sul territorio e sul web. Il tutto, senza abbandonare le attività squisitamente terroristiche, quali gli attentati contro gli aerei civili e le bombe nelle stazioni ferroviarie.

A questa duplice serie d’iniziative – l’una bellica in senso stretto, l’altra eminentemente terroristica – il variegato fronte degli Stati che si oppongono a quello autoproclamatosi islamico è chiamato a contrapporre le corrispondenti contromosse. E’ del tutto evidente che i bombardamenti non sono sufficienti; ma le stesse – ancor oggi problematiche – iniziative militari sul terreno rischiano di sfociare nelle medesime sabbie mobili in cui la varie coalizioni si sono trovate in Iraq e in Afghanistan, dopo una facile ed apparente vittoria. D’altra parte, lo stesso vertice di Antalya ha evidenziato non trascurabili divergenze tra i protagonisti, al di là delle dichiarazioni ufficiali. Insomma, il cosiddetto Occidente si presenta, ancora una volta, disunito: niente di nuovo, insomma, dai tempi in cui il re di Francia appoggiava il Sultano per intralciare i disegni dell’Imperatore cristiano…

E qui veniamo al cuore del problema: sull’onda emotiva della strage parigina, perfino gli schieramenti progressisti e laici nutriti di pacifismo cominciano ad avanzare dubbi sulla natura e la portata del conflitto che rischia di coinvolgere anche le città italiane, in primis la Roma dell’imminente giubileo. E’ ancora fresco di stampa il fondo di Ernesto Galli Della Loggia sul Corriere della Sera, nel quale si sottolinea non solo la natura di contrapposizione culturale di quella che oggi  sta assumendo tutti i caratteri di una guerra, ma anche l’incidenza del fattore religioso: “… si tratta di…iniziare un’analisi, una discussione dai toni anche aspri, se necessario, sugli effetti che ha avuto il ruolo identitario della religione islamica sulle società dove essa è stata egemone… e sulle vicende storiche stesse del mondo islamico, forse un po’ troppo incline all’oblio e all’autoassoluzione”.

Ed è ormai questa la vera asimmetria che caratterizza il conflitto in questione: se da un lato ci si avvia a vedere fronteggiarsi due veri eserciti, e quindi l’asimmetria, su questo piano, si va attenuando, dall’altro c’è invece, di fronte ad una schiera, in Occidente, di soggetti – privati e pubblici, singolari e collettivi – che rifiutano di riconoscere nella drammatica congiuntura attuale una contrapposizione di modelli culturali – una schiera comunque incapace di combattere per la difesa della propria identità - si pone un nemico agguerrito e consapevole proprio sul terreno della cultura e dell’identità religiosa e pronto a morire e a dare la morte per l’affermazione dei propri modelli.

Sono ancora forti gli appelli a quello che ci si ostina a definire “Islam moderato”, a cui peraltro invano si continuano a chiedere prese di posizioni inequivocabili di condanna, da parte delle Istituzioni politiche e manifestazioni di massa alle società civili. Specialmente sui mass media occidentali – in prevalenza progressisti e laici – si sorvola poi sul vasto consenso che supporta l’esercito dell’Isis e le cellule sparse nella clandestinità e che si sostanzia in una vasta rete di fiancheggiatori camuffati nel grigiore di una vita ordinaria.

Per concludere queste note, non si può non rammaricarsi del fatto che l’Islam non sia tutto quello che, ad esempio, viene descritto nei libri di Pietrangelo Buttafuoco e di Franco Cardini o nelle interviste dell’imam Pallavicini, vale a dire una religione di pace, di moderazione, di grande e raffinata spiritualità. A tutti noi, il compito, ciascuno per la sua parte, di ravvivare e indirizzare questi contatti interreligiosi nella direzione, inevitabile, di una convivenza, possibilmente pacifica e feconda.

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