Teoria farraginosa

Due strani fiori futuristi

Ritraggo in uno schizzo i due fiori e su di essi alterno delle variazioni possibili con l’uso del colore

di Piccolo da Chioggia

Due strani fiori futuristi

Su di una rivista d’arte italiana del maggio 1933 campeggiava l’immagine fotografica di una teoria farraginosa di fiori futuristi. Non erano i fiori di Balla, costruiti in legno e tinti a vivissimo colore, le cui forme potrebbero sembrare date di getto e senza troppo studio. Si trattava al contrario di assemblaggi metallici dalle forme arzigogolate nelle quali vaso e infiorescenza al culmine dello stelo costituivano un unicum. Il fiore vero e proprio si riduceva quindi ad un piccolo bocciolo meccanico ornato d’uno sparuto collarino di foglie in lamiera. In pratica questi assemblaggi erano riconoscibili come i fiori dai nomi fantasiosi ideati del futurista Bot seguiti ad un manifesto sulla flora futurista apparso alcuni anni prima: fior di lampada elettrica, fior di freccia, fior di babau. Nomino solo ricordando i disegni riassuntivi di Bot visti su di una pagina sparsa e ritrovata per caso. Vi era persino un fior di gigleur, che noi immaginiamo innaffiato non più dalla chiara acqua della brocca ma dalla benzina. I fiori rappresentati mi avevano davvero fatto sorridere per la spensierata fantasia delle invenzioni accoppiate a dei nomi impensabili e in questo mi si illuminava la teoria di Stendhal sull’arte quale promessa di bonheur, felicità o, attenuando, diletto. La fotografia, vista dopo il trascorrere del tempo, quello che è bastato per impedire l’insorgere incontenibile della foga imitativa che mi ha sempre preso ogniqualvolta ho scoperto una qualche invenzione futurista di cui non sapevo, mi aveva lasciato infine piuttosto perplesso. Da modellista della carta mi mettevo in ogni caso a studiare con la lente l’immagine un po’ sfuocata e per indovinare la possibilità d’una ricostruzione come è avvenuto per alcuni samosvieri lombardi di cui ho raccontato in un passato capitolo. Vi era tuttavia ben poco da fare, perché le forme troppo complicate per la fragilità della carta avrebbero richiesto uno sforzo che mi pareva superiore allo spettacolo dato dall’esito d’un modello ricostruito.

  

Della teoria farraginosa di queste creazioni floreali futuriste due di esse colpiscono per la curiosa architettura dell’insieme. Pur non essendo così stravagante a fronte di altri soggetti della medesima teoria, l’architettura di entrambi i fiori, ovvero più esattamente quella dei loro supporti, porta impressa in sé, e netto, il segno vetusto e primordiale di Giano, il generatore della schiatta degli dei romani. “Duonus cerus” , buon creatore, e “divom pa”, padre degli dei, sono gli appellativi di questo nume in antiche scritture latine. Non è qui il caso di immergersi in un labirinto dell’archeologia e un riassunto minimo della storia del segno può bastare: la divinità bifronte così peculiare degli italici antichi pare aver avuto una raffigurazione stilizzata fin dall’epoca delle incisioni rupestri trovati sulle Alpi piemontesi e liguri. Questa era, in pratica, data con quello che oggi a noi appare come il segno Φ o ф dell’alfabeto ellenico. È chiaro il nesso pittorico tra raffigurazione e nume, i due volti del bifronte, lo “junior” ed il “senior”, il principio e la fine dell’anno, il chiaro e l’oscuro, e tutte le dualità riunite che possano estendersi nel dar lume di dottrina alla coppia manifesta nel divino iniziatore, si riassumono nei due mezzi cerchi separati dalla linea polare, facente funzione di axis mundi, e da essa pure indissolubilmente uniti nell’efficace stilizzazione. Sembra quasi che l’antico segno abbia voluto sollevarsi dalla sua immutabilità incisa nei sassi alpestri per un inusuale lampeggiare entro il tempo offrendo la propria architettura pittorica per trasfondersi in una coppia di supporti atti a sostenere due strani boccioli metallici che vogliono dirsi fiori futuristi.


Ianus, ovvero Giano nelle sue raffigurazioni a due volti viene esplicato come “junior et senior”, come principio e fine, come dì e notte.  Il segno ф che lo riassume è così l’estrema stilizzazione delle coppie opposte eppure complementari che si compongono nel suo agire . In quanto “duonus cerus” e “divom pa” Giano crea ed è padre degli dei. Tuttavia nei due semicerchi, i quali uniti sull’asse polare danno il ф del segno del nume possiamo a questo punto dedurre senza troppo divagare che essendo in essi raffigurati i due aspetti opposti e però complementari, come il notturno e diurno, di un divino padre e creatore, ad essi si possono far risalire i due volti della sovranità cosmica, incarnati definitivamente poi, nella triade capitolina, dall’imperioso Juppiter e dal suo pallido alter ego Dius Fidius. Juppiter è da associare, malgrado il nome connesso alla radice indeuropea “deiw” che indica il cielo nel suo lume diurno, all’aspetto notturno, inquietante ed inesplicabile della sovranità equilibrato in quest’ultima e per quanto possibile dal buon Dius Fidius che ne raffigura l’aspetto razionale ed intelligibile. Georges Dumézil, che ha indagato a fondo questo dittico indoeuropeo della sovranità ha mostrato come alla coppia romana corrispondano la coppia germano-scandinava di Odhinn e Tyr e, nel Pantheon vedico, quella di Varuna e Mitra. Con gli dei europei più inclinati a rappresentare aspetti espliciti del loro essere numi, Juppiter come “re sovrano mago” e Dius Fidius come “sovrano del diritto” e gli dei vedici suscettibili di ampie esplicazioni ed estensioni anche al lume delle elaborate dottrine susseguitesi ai primordiali canti rigvedici. Per indagare più a fondo le dualità di valore cosmico del cerchio con l’asse polare, che in forma di un ф raffigura Giano, conviene allora ricorrere agli dei vedici Mitra e Varuna per i quali si hanno le formulazioni più esatte dell’essere opposti e complementari e in una portata tale da potersi dire universale e aperta tanto all’astrazione attraverso idee quanto alla raffigurazione in favola divina e, in ultimo, duttili al punto da potersi scorgere dove non si immaginava e dissimulate in un fiore futurista.


Nella tripartizione del mondo divino il Francese ha disvelato la prima regola dell’apparire delle religioni indoeuropee, e come tale questa si riassume in dei sovrani, alla prima funzione, quali appunto Mitra e Varuna, in dei della guerra, come il trionfale Indra ed il latino Marte, alla seconda funzione, e negli dei della prosperità, quali i gemelli Asvin o il romano Quirino, alla terza. Ma al primo livello, quello della sovranità, l’intuizione dello star fra loro in complementare antitesi di Mitra e Varuna avuta dal professore del Collège de France appare come una scoperta di egual portata se non maggiore di quella condensata nella celebre tripartizione funzionale. Mitra è il sovrano nel suo aspetto razionale, chiaro, regolato e benevolo. È il “dio sovrano giurista”, il custode dell’ordine, delle regole statuite e dei contratti. Varuna è, all’opposto, l’aggressivo, l’ispirato, il violento, l’ombroso, l’inquietante. È “colui che dispone del potere di legare a distanza” con la sua “maya”, la magia ora ingannatrice ora creatrice, ed è nella formula coniata dal Francese il “dio sovrano mago”. Nelle scritture abbonda la fantasia di formule che precisano l’ambito delle due divinità e danno la misura della duttilità raggiunta da queste nel contrastarsi e partirsi i compiti: Mitra è il dì e Varuna la notte, Mithra è questo mondo e Varuna l’altro mondo, del primo sono le forme visibili e usuali del fuoco o del “soma”, la bevanda inebriante, al secondo appartengono le forme invisibili e leggendarie, di Mitra è il latte ma di Varuna è il “soma” e così via. Ciò che è del primo non è del secondo. A Mitra il “legislatore” appartiene ciò che si rompe da sé o quel che è cotto a vapore, all’inquietante “legatore” Varuna è ciò che è tagliato con l’ascia e quel che è tolto al fuoco. Non c’è che dire, una fantasia poetica futurista può da qui trarre più che nuove e ardite immagini. 


Tornando ai due fiori dell’anno 1933 si può ora tentare di gettare qualche maggior lume, del tutto arbitrario ma suggestivo, su di essi con l’associare uno dei semicerchi del ф a Mitra, ovvero al romano Dius Fidius, e l’altra a Varuna, ovvero all’imprevedibile Juppiter. I semicerchi che in questo modo si completano pur restando separati  ci rammentano che vi è una duplicità lucente e notturna in tutto ciò che a noi appare e però questa duplicità è riassunta e si ricompone sull’asse polare in una inesplicabile unità. E tale unità prolungandosi trasmuta in fiore. 


Ritraggo in uno schizzo i due fiori e su di essi alterno delle variazioni possibili con l’uso del colore. Di queste, una si porge gradita all’occhio dato che esplica la complementarità dì e notte, Mitra e Varuna, adombrata dalla costruzione; sui due settori del ф sono incastonate fra i rispettivi semiarchi e l’asse che li sostiene, come in bandiera, delle lamine di cristallo, l’una brunita e l’altra chiara.


Non mi tolgo l’idea che il latino Ianus possa esser connesso pure etimologicamente, oltre che nella funzione di “divom pa”, al Dyaus vedico che con la divina sposa Pŗthivi diviene il Dyaus pitar, il padre di tutti gli dei, ergo di Mitra e Varuna. Vi è che ha connesso Ianus al sanscrito yana ovvero “via” donde il latino ire. Ma qualcuno ha proposto un’affinità piuttosto palese tra Ianus, e il correlato ianua, “porta”, col dyana sanscrito che indica una contemplazione attiva. Mi sembra che in dyana la prima sillaba possa essere la medesima che principia Dyaus. Procedo con estrema cautela ed esprimo null’altro che semplici suggestioni poiché nelle questioni etimologiche è ripida la discesa verso argille friabili che male tollerano la costruzione dell’improvvisato carpentiere delle affinità. Nel caso tuttavia non fosse infondata la duplice connessione di Ianus con dyana e Dyaus, e quella con yana ecco che in un certo senso il nome dell’augusto “divom pa” latino può individuare un’idea di “principiatore luminoso d’una via”. 


Resta che in ogni caso pure le opere futuriste aprono, se viste da altri punti prospettici, degli inaspettati e vasti panorami. 

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