Editoriale

Dagli amici ci guardi Dio... Tutte le fregature che i paesi amici ci hanno rifilato

Dileggio, mancanza di rispetto verso i ruoli istituzionali, ci considerano marca di frontiera e ... non hanno torto perché noi li lasciamo far

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

he cosa accomuna Federica Mogherini e i tifosi del Feyenord, Cesare Battisti e i nostri due Maro'? La nozione di rispetto, o meglio, di mancato rispetto nei confronti dell'Italia. Il caso della Mogherini è forse il meno grave, ad onta del ruolo formalmente di primo piano occupato dall'esponente del PD: esso infatti riguarda il mondo delle istituzioni, la galassia dei politici, e si sa quanto le prime e i secondi siano lontani dai popoli, dalla gente comune. Che si tratti di una conferenza sulle fonti energetiche o di un summit sulla crisi ucraina, la nostra lady Pesc viene sistematicamente ignorata, e la cosa non va ascritta alla oggettiva debolezza del ruolo e neppure alla scarsa autorevolezza della persona: non si ricordano infatti analoghi sgarbi a scapito di lady Ashton, ed è lecito presumere che tale rispetto fosse dovuto al paese di provenienza della medesima, più che alle riconosciute qualità di quella lady.

Sul caso Battisti, sembra quasi superfluo tornare: fra l'altro, ben altre e più attuali urgenze incombono sui nostri orizzonti; basti ricordare che qui l'affronto da parte d'un paese "amico" si è rivolto addirittura contro l'assetto e la credibilità del sistema giudiziario e, più in generale, politico ed istituzionale dell'Italia.

Sul "caso Maro'" invece non ci stanchiamo di esprimere lo sdegno verso le autorità - centrali e periferiche - di un altro paese "amico" (ma in proposito andrebbe riletto e meditato Carl Schmitt), verso l'Unione Europea e, per ultimo ma non da ultimo, verso la serie di governi italiani che si sono dimostrati incapaci di tutelare due fedeli servitori in uniforme dell'Italia, inviati ad espletare una missione lontano dalla Patria. Due servitori, si badi bene, che nessuno vuole mandare liberi senza un regolare processo, ma che certo non si può tollerare di vedere  per anni nella massima incertezza giudiziaria, ristretti nella loro libertà e senza che si intraveda una qualsivoglia soluzione - politica o giudiziaria, bilaterale o multinazionale - all'orizzonte.

E veniamo ai teppisti olandesi che hanno violato nei suoi luoghi più delicati e prestigiosi la capitale d'Italia. Al riguardo, abbiamo letto commenti che, pur nella deplorazione, erano quasi all'unanimità volti a minimizzare l'accaduto, a cercare attenuanti da parte olandese - altro paese "amico"! - a limitare le responsabilità ai soliti pochi teppisti. Non è questa la via per tutelare il buon nome dell'Italia, la reputazione della sua gente, l'integrità del suo paesaggio e dei suoi monumenti. E' vero, noi siamo i primi a dimostrare disinteresse se non disamore per il nostro patrimonio di valori e di beni: basterebbe il triste caso di Pompei, per ricordarcelo.

Si parla tanto del disastro greco, su tutti fronti: ebbene, in quel paese ferito, la cura e l'orgoglio per un patrimonio archeologico, che è l'unico paragonabile al nostro, sono immediatamente evidenti, per la manutenzione e la sorveglianza, a chiunque - come il sottoscritto - abbia l'opportunità di visitare non solo il Partenone, ma anche i siti più sperduti, come quello di Pella, che fu capitale dell'impero macedone.

Aver ascoltato interviste a "tranquilli" tifosi del Feyenord, che difendevano il comportamento dei loro connazionali, l'aver ascoltato il Questore di Roma che parlava di regole d'ingaggio e della soddisfazione per aver scongiurato più gravi fatti di sangue, mentre negli occhi della memoria scorrevano le immagini di orde scatenate sotto la statua di Giordano Bruno o impegnate a pisciare a piazza di Spagna o a spicconare la Barcaccia del Bernini, già adibita dagli stessi barbari a discarica di lattine e bottiglie, ha colpito in profondità la nostra dignità di italiani e di romani. Perché questi fatti - che fanno  seguito ad altri recenti e meno gravi, ma non per questo meno significativi, come la dannosa arrampicata sulla facciata della basilica di S. Andrea della Valle o il tentato furto e/o danneggiamento di reperti al Colosseo - si verificano solo da noi (e tralasciamo gli impuniti bivacchi nelle piazze e i pediluvi nelle fontane monumentali)? Perché, passando ad argomenti più pressanti, la criminalità internazionale preferisce come teatro delle sue gesta appartamenti e banche d'Italia? Forse per il lassismo delle nostre leggi e dei nostri tribunali e per l'inadeguatezza di organici delle nostre forze di polizia? Le risposte sono sulla punta della lingua di tutti noi.

E non è questione di avere a tutti i costi un alto senso delle nostre istituzioni e dei nostri connazionali: il prestigio bisogna guadagnarselo in tutti campi, e sembra che negli ultimi decenni, soprattutto per le vicende di casa nostra, non siamo stati all'altezza. Fra le pochissime eccezioni, va messo in evidenza l'operato delle nostre forze armate impegnate in difficili scenari di guerra, a dispetto dell'ipocrisia dettata da una Costituzione,  superata pure in questi capitoli: ma anche su questo fronte, con l'imbarazzante smentita dei due ministri competenti - Esteri e Difesa - da parte del Capo del Governo, non abbiamo dato buona prova.

Già con la crisi libica innescata dal duo franco-britannico e che doveva portare alla cruenta destituzione di Gheddafi, con l'avallo degli USA e, ahimè, l'acquiescenza diversamente motivata dei nostri vertici di Stato e di Governo dell'epoca, ci siamo coperti di vergogna; ora, col prevedibile sviluppo terroristico in quella travagliata area - e con il nuovo esodo su mezzi fortuna dei nostri connazionali e del nostro Ambasciatore - la situazione è ancor più gravida di incognite. E questo non tanto per le minacce virtuali dell'Isis, con i suoi fotomontaggi di bandiere nere sulla cupola di S. Pietro o sul Colosseo, quanto per le concrete aspettative di inauditi flussi migratori indirizzati a forza verso le nostre coste e le nostre città dai jihadisti, oltretutto in presenza non già di un'opinione pubblica e di un ceto politico forti, compatti e capaci, bensì della massima, generalizzata incertezza intrisa di buonismo e di confusione.

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