Le tesi di Diego Fusaro

Per una filosofia dell’azione

di Giovanni Sessa

Per una filosofia dell’azione

La copertina del libro

Recentemente ci è capitato di leggere un libro che ci ha incuriosito. Ci riferiamo all’ultimo fatica del giovane filosofo hegelo-marxista Diego Fusaro, Il futuro è nostro. Filosofia dell’azione, edito da Bompiani (euro 15,00). Un titolo oltre il piagnisteo, in cui le forze intellettualmente oppositive   allo stato presente delle cose, sembrano essere irrimediabilmente precipitate. Nelle sue pagine non vi è traccia della situazione emotiva che Walter Benjamin definì “malinconia di sinistra”, prodotta dalla constatazione dell’impotenza politica gauchiste, di fronte al trionfo del capitalismo. Fusaro invita i lettori a lasciarsi alle spalle la platonica “sindrome di Siracusa”, il vivido sentimento dell’impossibilità di cambiare il mondo nel quale si vive. Il mito platonico della caverna è la metafora con la quale l’autore ci invita ad agire per riappropriarci di un futuro diverso rispetto al    presente mercatista.

   Dalla paralisi dell’azione si può uscire a condizione che la ricerca della libertà si coniughi con quella della verità. Non basta, come narrò nel mito suddetto il filosofo ateniese, conoscere il vero, non è sufficiente sollevarsi dall’oscurità della caverna e cogliere la luce del sole. E’ necessario che il filosofo ridiscenda presso i suoi simili, rimasti a vivere nelle ombre, assumendo i rischi che tale scelta comporta. Socrate docet. Per chi si muova negli orizzonti del pensiero di tradizione, tale posizione non rappresenta una novità. Oggi la sua evidenza è lapalissiana. Il mondo ha assunto il volto della gabbia d’acciaio invalicabile, di cui disse Max Weber: la cultura dominante non consente di vedere le porte dalle quali uscire verso un mondo altro.

   Fusaro definisce la fase attuale di sviluppo del capitalismo, “speculativa” e post-borghese. Essa si è storicamente manifestata quale parossistica liquidità totalitaria, a partire dal Sessantotto. La contestazione realizzò non la liberazione dal capitale, ma del capitale: fu strumentale al progetto mondialista finalizzato a liberare il mercatismo dai freni borghesi che lo avevano contenuto. Da ciò la distruzione della famiglia, della scuola, dell’Università. La borghesia si liberò della “coscienza infelice” che le aveva concesso di pensare le insufficienze del presente come emendabili nella prassi aperta al futuro. Conseguenza di ciò fu l’evaporazione del Padre, del precedente autorevole: il Sessantotto si sbarazzò definitivamente della Tradizione, stante che il Padre: “…come suggerito da Lacan…è colui che è in grado di unire e non opporre il desiderio alla legge” (p. 67). La dissociazione del desiderio dalla legge ha reso il parricidio edipico di quei giovani, correlato all’incesto. Per questo, la realtà attuale risulta inguardabile ed è ben rappresentata dal film di Pasolini, Salò o le 120 giornate di Sodoma. Essa è ridotta a: “…godimento illimitato e autoreferenziale, che privo di limiti e misura, domina incontrollato su tutto il giro d’orizzonte, traducendosi puntualmente in pulsione di morte” (pp. 61-62). Il desiderio si accompagna alla repressione dell’ira, sono ovunque presenti la lividità, il risentimento generalizzato dell’ultimo uomo, la tensione divisiva e violenta, incapace di articolarsi in rivolta. Questo l’esito del capitalismo assoluto, sciolto cioè da ogni residuale vincolo, produttore di narcisi atomisticamente chiusi all’altro, per i quali l’unico futuro ipotizzabile è la riproposizione del presente consumistico e intransitabile. Depotenziato il valore salvifico delle grandi narrazioni ideologiche novecentesche,      il pensiero postmoderno è l’anestetico sistemico che ci solleva dalle distonie del presente, supportato dai neorealismi, specchi oggettivi del mondo, che con la tecno-scienza, acritica per definizione, determinano la perpetuazione del sistema, prospettando la fine della storia.

  Se questa è la diagnosi della malattia, quale la terapia proposta da Fusaro? Il filosofo la individua nel recupero del pensiero dialettico hegelo-marxista, viatico per il cambiamento. Esso, avrebbe realizzato la defatalizzazione dell’oggetto, della realtà, e in tale prospettiva: “L’essere non si dà ma viene posto: è il frutto sempre trasformabile e mai definitivo dell’agire del soggetto ponente” (p. 248). Per dirla con Gentile: “Il mondo sempre è quello che noi lo facciamo”. Il pensatore torinese   sulla scorta della lezione di Costanzo Preve, e in evidente sintonia con le posizioni teoriche di Alain de Benoist, le cui tesi circolano abbondantemente nel testo, nonostante le limitate citazioni che lo riguardano, ci invita a superare, di fronte alla colonizzazione dell’immaginario messa in atto dalla Forma-Capitale, la dicotomia destra-sinistra, in nome di altre sintesi politiche, capaci di ridisegnare la schmittiana contrapposizione di amico-nemico. L’azione, così prodotta, dovrebbe condurre al superamento dell’individualismo narcisista e costruire, come proprio obiettivo qualificante, un “universalismo cosmopolita”. 

   Nelle linee generali condividiamo l’accorato appello di Fusaro: è quanto mai necessario elaborare altre sintesi culturali capaci di mobilitare politicamente, oltre desueti steccati, i “ribelli” finora rimasti nelle radure del bosco jüngeriano. L’impianto teorico fusariano non è però di certo una novità: la sua analisi della contestazione giovanile è assonante con quella che Evola sviluppò sulle pagine de il Borghese nei mesi successivi al maggio radioso. Ci pare, inoltre, che un primo limite della proposta fusariana debba essere individuato nella scelta dell’obiettivo politico da perseguire: l’universalismo cosmopolita, sia pur liberato dal diktat mercatista. Tale ideale è l’altro volto della globalizzazione, negatrice delle differenze antropologiche, etniche e tradizionali che, a parole, si vorrebbe combattere. La grammatica hegelo-marxista che sostiene l’impianto esegetico del libro ha   mostrato le sue insufficienze, finanche in Gentile che, nel secolo scorso, la portò alle estreme conseguenze. L’attualismo, come Evola ed Emo capirono, risolve la contraddizione solo sul piano gnoseologico, l’atto è pensiero pensante, non realmente agente. Per essere tale dovrebbe coincidere con la Libertà-Potenza dell’Origine capace di tacitare, sul piano pratico, le pretese dell’oggetto. E’  alle posizioni ultraidealiste che bisogna guardare. Solo esse possono sviluppare, in senso eminente, filosofie dell’azione, nelle quali l’Origine, si fa evento, in un atto sintonizzato sul precedente autorevole del mito-tradizione. Il loro sapere ripropone il Sacro, che dice la coincidenza di essere e nulla, di Tradizione e rivoluzione: “La tradizione è la tradizione di un perpetuo rinnovamento…dello spirito, della libertà…di fronte alla necessità, all’ostacolo. Una tradizione di coesione contro la dissoluzione…è una forza…contro le impossibilità” (A. Emo, Verso la notte e le sue ignote costellazioni, Gallucci, Roma 2014). Ecco, le altre sintesi dovrebbero avere come presupposto l’evoliana possibilità dell’impossibile

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