Su di un libro di Sandro Consolato

Medioevo esoterico e ghibellino

di Giovanni Damiano

Medioevo esoterico e ghibellino

     Evola e Dante. Ghibellinismo ed esoterismo, uscito in questo 2014 per i tipi delle Edizioni Arya di Genova, è l’ultimo, notevole, lavoro di Sandro Consolato, uno dei più attenti studiosi del pensiero evoliano (e non solo). Ma, innanzitutto, perché Dante? Consolato lo spiega con chiarezza sin dall’incipit del suo testo (p. 7): “quello di Dante Alighieri è uno dei pochissimi nomi dell’Italia post-romana a cui Julius Evola abbia fatto riferimento con simpatia ed interesse”[1]. Si tratta di un giudizio largamente condivisibile, visto che altri nomi sono stati da Evola o sempre stigmatizzati (è il caso di Mazzini), oppure sottoposti a giudizi ondivaghi; ad esempio, Giordano Bruno è guardato con favore in Imperialismo pagano, brutalmente attaccato in Rivolta contro il mondo moderno e nell’articolo del ’42 “Il miraggio del Rinascimento”, per essere parzialmente rivalutato in un articolo del ’57 uscito su Il Popolo italiano col titolo di “Scienza ultima” (ripubblicato con qualche modifica e col titolo mutato in “L’uomo fra le atomiche” nel ’58 sul Roma). Lo stesso può dirsi per Tommaso Campanella, anche qui partendo dal giudizio positivo espresso in Imperialismo pagano, passando per le accuse mossegli in uno scritto del ’40 apparso su La Vita Italiana (“Sulle origini e sul doppio volto del razzismo”), per arrivare al giudizio non negativo contenuto nel medesimo articolo de Il Popolo italiano ricordato in precedenza. Al contrario, Machiavelli, dopo i toni laudativi risalenti al periodo di Imperialismo pagano, resterà sino alla fine uno dei costanti bersagli polemici di Evola.

     Non solo, perché l’interesse evoliano per Dante permette a Consolato una efficacissima ricostruzione di tutti gli aspetti intorno ai quali tale interesse si è andato formando, ossia il Dante puramente esoterico, quello esoterico-politico e infine il Dante “teorico dell’Impero e critico dei processi di sfaldamento dell’ecumene medievale” (p. 9), quest’ultimo esaminato da Consolato a partire da due prospettive tra loro distinte ma convergenti (a mio parere in direzione chiaramente ‘genealogica’), e riguardanti “il Dante richiamato da Evola quale teorico di determinati princìpi ed il Dante  utilizzato da Evola in funzione di alcune tesi particolari” (ibid.). Da qui la suddivisione del libro in quattro densi capitoli preceduti e seguiti da una premessa e dalle conclusioni.

     Ora, sul Dante “puramente esoterico” (la definizione è di Consolato), associato ai cosiddetti Fedeli d’Amore, non ho nulla da dire, non essendo io uno studioso di esoterismo, ma credo, in ogni caso, che il richiamare l’attenzione sull’Evola ‘esoterico’ sia comunque meritorio, pena il venir meno di un aspetto a dir poco essenziale dell’opera del pensatore tradizionalista. Di conseguenza, bene ha fatto Consolato a ritornare con forza sull’Evola ‘mago’ ed esoterista, oltre che profondo conoscitore delle più svariate dottrine ‘iniziatiche’.

     Per quanto riguarda il ‘lato’ esoterico-politico, Dante avrebbe contribuito, seppur, secondo Evola, con dei limiti dovuti a un rapporto ambiguo e irrisolto col cattolicesimo, all’edificazione di quel Medioevo ghibellino ed esoterico messo al centro dell’evoliano Il mistero del Graal, essendo soprattutto il simbolo dantesco del Veltro appunto “una figura imperiale, guerriera e ghibellina” (p. 35), in linea con le tradizioni iniziatiche ed esoteriche della letteratura graalica, del templarismo e dell’Impero retto da un rex et sacerdos ad imitazione del Melchisedech biblico[2]

     In merito agli ultimi due punti, innanzitutto Dante, pur con delle riserve relative alla coppia polare azione/contemplazione, viene riconosciuto da Evola come una auctoritas della dottrina imperiale. Con le parole di Consolato: “il valore della teoria imperiale di Dante […] sta dunque per Evola nell’affermazione dell’origine trascendente dell’auctoritas dell’imperatore e nella sua autonomia e nel suo superiore diritto rispetto ad ogni altro potere terreno” (p. 51).

     L’ultimo capitolo, dedicato da Consolato agli “usi di Dante nella metapolitica evoliana”, riveste, più ancora del precedente, un  particolare interesse in chiave ‘genealogica’, in quanto Dante gioca un ruolo cruciale nella scelta delle tradizioni operata da Evola. Al riguardo, mi sembra che Consolato abbia ragione nell’individuare il momento in cui Dante entra a far pienamente parte della mitopoiesi evoliana nella necessità, avvertita negli anni Trenta, di una sempre più stretta intesa italo-tedesca. È allora che il Dante che loda “lo ’mperio del buon Barbarossa” (Purg. XVIII, 119) risulta funzionale al disegno evoliano di cementare l’alleanza italo-tedesca con indiscutibili argomenti ‘genealogici’, con la contestuale critica (mai più abbandonata da Evola) dell’Italia dei Comuni in lotta con lo Staufen.

     Ma se Consolato (e con lui Evola) ha di nuovo ragione nel sottolineare come, in effetti, i Comuni non esprimessero alcuna “idealità nazionale” (p. 70) nel loro scontro con l’Impero, è pur vero, in sede di giudizio storico, che i Comuni, lungi dal ridursi a meri centri ‘mercantili’, rappresentarono un nuovo inizio di quel militarismo civico che aveva contraddistinto sia la repubblica romana che le poleis greche. E non solo. Come ebbe a scrivere lo zio del Barbarossa, Ottone di Frisinga, nel suo Gesta Friderici, “i latini imitano ancor oggi la saggezza degli antichi romani nell’ordinamento delle città e nella gestione della cosa pubblica” (cit. in P. Grillo, Legnano 1176. Una battaglia per la libertà, p. 11). E proprio commentando questo passo, Maurizio Viroli (nel suo Dalla politica alla ragion di Stato, p. 4) ha potuto dimostrare in modo persuasivo che “il diritto romano e la tradizione ciceroniana e stoica delle virtù politiche furono le fonti principali dell’ideologia politica delle repubbliche cittadine e della rinascita del vocabolario della politica”. Né va dimenticato, per chiudere, che lo stesso Barbarossa, nel delineare la sua ‘genealogia imperiale’ finì, a mio avviso in maniera del tutto contraddittoria, per chiamare suo “predecessore” Costantino (cit. in Grillo, p. 21), ossia proprio uno dei massimi responsabili del futuro trionfo ‘guelfo’.



[1] Giudizio ancor più netto è espresso da Consolato nelle conclusioni del suo testo (p. 78): “Dante, l’italiano della storia postromana che Evola tenne in maggior conto”.

[2] Come però Evola possa parlare di Medioevo ghibellino e ‘pagano’ prendendo a modello Melchisedech mi sembra a dir poco discutibile. Ma non essendo qui il caso di andare oltre questo rapido cenno, mi limito a segnalare che Consolato, avendo evidenziato la “stretta dipendenza” de Il mistero del Graal da Il Re del Mondo di Guénon (p. 25), a mio parere ha già implicitamente indicato la direzione da seguire per sciogliere l’‘enigma’.

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