Giacomo Casanova

Tra il fin d’ottobre e’l capo di novembre

La fuga dai Piombi della mezzanotte del 31 ottobre 1756

di Piccolo da Chioggia

Tra il fin d’ottobre e’l capo di novembre

Ritratto di Giangiacomo Casanova eseguito dal fratello Francesco, tra il 1750 e il 1755 (Gosudartstennyj Istroiceskij Muzei, Mosca)

Con l’allegria sfacciata di chi si sente protetto dalla sorte, il Casanova prigioniero ai Piombi aveva consultato in guisa di oracolo, lui aperto ciarlatore miscredente, una cosa che non è senza rilievo fra le cause del suo arresto, il magnifico poema dell’Ariosto. Lo racconta con la verve e la joye de vivre, che anche chi non ha mai letto le sue pagine gli conosce dalla fama, il prigioniero stesso, una volta che riesce burlescamente ad allontanarsi dall’iniqua inclaustrazione, sulle pagine francesi della sua autobiografia, al capitolo, diventato di poi un testo a sé stante e ristampato in innumeri edizioni, de “La mia fuga dai Piombi”.

In una pausa degli scavi svolti con coltelli e punteruoli, raccattati con qualche trucco via i rari pacchi che riceveva dall’esterno, per aprirsi una via verso il tetto, Casanova, sentendo o presagendo che l’opera stava effettivamente per promettere più che bene, del poema dell’Orlando furioso, che stazionava sempre sul suo tavolino carcerario, ne aveva aperto a caso una pagina coll’intento di indagare il fato eroico ed avere un’indicazione di tempo, sul quando egli avrebbe potuto respirare di nuovo e a suo agio l’aria aperta della laguna. 

Sulla pagina squadernata aveva letto trepidando questo verso

Tra il fin d’ottobre e’l capo di novembre.

E riguardando il calendario o, facendo il conto dei giorni, Casanova si accorgeva di essere nei pressi di quella data, con il lavoro di scavo e scasso e scardinamenti oramai quasi vicino ad aprire il varco. Se, come si sussurra, il prigioniero aveva potuto in realtà godere di qualche complicità a lui nota oppure occulta, la quale avesse istigato i carcerieri a chiudere un occhio e pure due sull’armeggio del giovane irruente scrittore e ciarlatore, ciò nulla toglie alla fantastica epica del racconto casanoviano né sminuisce di troppo la sua coraggiosa bravura; la fuga ci fu e fu spettacolare, magnifica nella descrizione, burlesca nell’effetto.

Si arriva dunque alla sera del 31 di ottobre e per un sussulto di puerile e graziosa devozione ai santi e agli angeli dell’infanzia, Casanova si chiede chi dal cielo lo possa aiutare, non volendo forse disturbare il Sommo per questa faccenda, in fondo così minima entro la grande scena cosmica. Non rammentando il suo santo protettore, quello che la madre, l’affascinante attrice Zanetta Farussi, aveva forse invocato lungo le doglie che avrebbero portato al parto del piccolo Ercole, il Casanova ha una di quelle intuizioni che la sfacciataggine della sua fortuna e del suo indubitabile charme trasformano in un vaticinio più che sicuro: essendo ‘l capo di novembre il dì d’Ognissanti ecco che fra tutti questi capi aureolati si deve trovare pure quello che lo protegge e lo conduce a buon porto verso l’aria aperta così sospirata dopo non trascurabili quindici mesi di attesa giudiziaria nell’ignoranza d’una precisa accusa.

Si sa oggi, o almeno pare questa esser l’ipotesi più accreditata dagli storici e dai filologi casanoviani, che fosse stato proprio il suo ciarlare da ostentato miscredente ad avergli alienato, pel tramite di qualche denuncia più o meno anonima consegnata alla “bocca del leone”, la benevolenza dei Consiglio dei Savi di Stato e ad aver allertato quella gondola armata dai gendarmi e issante un bel fanale rosso sempre acceso in prua, la cui vista era una delle poche cose capaci di togliere l’allegria e far sospendere le ciàcole, le chiacchere, ai buoni cittadini veneziani, ai quali del resto null’altro avrebbe potuto levare la voglia di godersi la vita come conviene. Era, questa, la gondola dell’Inquisitore di Stato e si era mossa in un lontano giorno del 1755 per andar a prelevare il Casanova nella sua dimora e consegnarlo ai Piombi.

Procedo per brevi frammenti perché la lettura del volumetto sulla fuga non è cosa recente. Devo quindi rammentare passo per passo. Il lettore che sia così cortese da soffermarsi su queste mie linee può di poi consultare da sé la bellissima memoria casanoviana e pure trar spunto per leggere quanto su questo campione del mondo cosmopolita settecentesco vi è, con dovizia di documenti, sulla nostra monumentale Enciclopedia Treccani. Do la garanzia scritta che nulla lo farà pentire d’aver voluto andar un poco più a fondo nella conoscenza di questo primattore del suo secolo. 

Obliare come usuale crassa opinione comune quella del Casanova alla continua conquista di cuori femminili è pure un fine accertato di queste scarne linee. La fama del lagunare in questo campo è, sì, meritata anche se forse, egli calca un po’ troppo i colori, più alla Francesco Guardi che non alla Canaletto, sulla sua tavola di raccontatore di memorie. Perché se di fama davvero imperitura si deve dire, questa spetta allo scrittore, uno dei maggiori di quel secolo cosmopolita, ed all’avventuriero e viatore di tante contrade. Le memorie di Casanova, delle quali le ultime pagine del capitolo sulla fuga danno un culmine poetico, sono magistrale documento per abbracciare per intero la mondanità d’un epoca, la sua non comune cultura, il culto dell’eleganza e dei bei modi, la scettica saggezza filosofica di fondo. Che forse presumeva, nella consapevolezza degli errori compiuti, l’arrivo d’un cataclisma rivoluzionario. Peraltro accrescitore di guai nuovi, più che non risolutore di quelli passati.

Di 3700 pagine manoscritte raccolte in dieci capitoli e stivate in dieci scatole era il lascito dell’ormai acquietato esule nel volontario eremo di Dux, in Boemia, dove ogni tanto gli toccava di sopportare gli scherzi insulsi d’un domestico, il Feldkirch, nell’attesa di ritirarsi per sempre dalla grande scena del secolo di cui era stato uno scintillante prim’attore, la sua vita. Raccontano i filologi casanoviani, ben addentro alle carte di Dux, che l’esule avrebbe tanto voluto ritornare nella città che lo aveva visto nascere ma il fato aveva imposto la sua volontà.  Eppure ancora una volta arrivava il coup de maître del geniale veneziano: la stesura dei suoi ricordi era fatta in buon francese, abbandonando dunque la bella favella materna che non avrebbe consentito la notorietà europea alla sua opera letteraria.

Torniamo nella sera inoltrata del 31 di ottobre del fatidico 1756. Scalpellando e valendosi, credo, più delle sue sole forze che non dell’aiuto del suo compagno di fuga, un chierico cialtrone che la sorte aveva addirittura fatto nascere come “patrizio veneziano”, un titolo mai nemmeno sfiorato dal Casanova che pure per nobiltà e senso dell’onore, riconosciutigli nelle descrizioni di molti dei più blasonati nobili del tempo, ne avrebbe avuto ben più diritto, il nostro eroe riesce a svellere una lastra del tetto metallico del carcere dei Piombi. 

È l’istante magnifico: l’inconfondibile aria salsa, fredda e bagnata della laguna ha steso una patina scivolosa sulle lastre di piombo del tetto e in ragione di questo il Casanova, impacciato anche dalla sua borsa, perde un appiglio e scivolando lungo disteso fino alla grondaia per poco non precipita nel canale. Nel cielo fra le nubi e qualche accenno di nebbiolina brilla argenteo il disco lunare. D’un tratto e di lontano, forse dal campanile di San Giorgio Maggiore, si odono i dodici fatidici rintocchi della mezzanotte! Il vaticinio della fortuna sfacciata e burlona si è avverato e 

tra il fin d’ottobre e’l capo di novembre

riecco che il ciarlatore e miscredente ora alzatosi a fatica e con massima attenzione all’equilibrio si muove a cercare passeggiando sul tetto dell’augusto palazzo ducale. In cerca d’un abbaino dal quale calarsi nelle soffitte e attendere il giorno. D’Ognissanti, vale di rammentare. Che non sia possibile traslare la nostra fantasia e accoccolarla su di uno dei pinnacoli del palazzo ad immaginare la scena e scorgere l’erculeo smargiasso che vaga come un’ombra sul fondo del magnifico panorama? Tutto è uno sfavillare notturno di blu profondo e argento. Piccole fiammelle di lumi e fiaccole di lontano brillano e si riflettono sulle acque. Il manto argentato della luce lunare si posa sulle cupole della vicina San Marco, il rosso vivo dei mattoni dei campanili si smorza in un tenue argento rosato alla luce dell’astro notturno. Le nubi che vagano in cielo sbiancano lievemente il blu della tenebra siderea.

Non sono informato sul mondo dei racconti disegnati. Che vi sia qualcuno che ha raccontato per immagini la storia di questa fuga? Sospetto in negativo e me ne compiaccio, perché penso che questo sia un racconto da lasciare alla bravura di chi si sia cimentato con le uniformi napoleoniche o le storie di Federico il Grande. Non potrebbero che essere Richard Knöchel e Carl Röchling a poter disegnare la storia della fuga mirabolante e a rendere la realtà vera con il loro acuto senso dell’osservazione ed il loro geniale senno nel comprendere quel che dei particolari minuti ha importanza di rammentare.

Ho nominato il grande Federico e ciò non cade per nulla a sproposito ma conviene prima che dia un lume sul seguito dell’uscita alla luce siderea sul tetto scivoloso. Dopo aver atteso il dì in una soffitta di palazzo ducale, verso l’alba il nostro smargiasso si cambia d’abito e indossa un vestito di gala irto di piume e pennacchi. Procedo come detto a memoria e non rammento cosa abbia fatto il compagno cialtrone, che si chiamava padre Balbi ed era prete, la cui contiguità nell’avventura casanoviana sembra quasi il contrappunto dello scemo all’intelligenza gagliarda del primattore. L’intuizione, rivelatasi poi esatta, del Casanova era che, sceso a basso, una volta che gli usceri di palazzo avessero riaperto le soglie scoprendolo dentro le sale tutto vestito in gran pompa, avrebbero pensato ad un ospite della serata di festa di fine ottobre rimasto inavvertitamente chiuso dopo la fine delle danze e del ricevimento. E non avrebbero dato per tempo l’allarme.

Così fu. Fra qualche risata dei domestici ducali il Casanova ed il compagno ricalcano all’alba del primo di novembre dell’anno 1756 il selciato della spianata antistante il palazzo e arrivati alle gondole salgono su una di esse. Il Casanova dicendo ad alta voce al gondoliere, in modo da venir ben sentito da ogni astante, “a Fusina”.  Questo affinché, una volta che i carcerieri avessero dato l’allarme, le gondole dei gendarmi si gettassero sulla falsa traccia, verso la località nominata. Appena allontanatisi dalla vista dei primi curiosi, il Casanova si premura poi di dire al bravo gondoliere di voltar la prua verso Mestre, non senza aver dovuto sopportare il solito inutile battibecco con il Balbi che gli rimproverava di confondere il rematore variando tutte queste destinazioni.

La storia del cammino verso i confini della Serenissima repubblica è altrettanto gustosa e pure avventurosa ma qui non la si può riassumere che secondo la tappa principale: i due fuggiaschi, prendono la strada di Bassano sul Brenta in modo da portarsi per tempo al confine con l’Impero. Per alcun tempo addirittura si separano. Di poi vi è l’arrivo sulla strada del Brennero e la via verso Monaco di Baviera. Quindi una fuga a Nord e non, per esempio, sulla via di Trieste o Gorizia che pure erano un dominio dell’Asburgo. A Bassano da Venezia era la via più corta per porsi al riparo della gendarmeria della Dominante. Il lettore è in ogni caso invitato a leggere il racconto del testo casanoviano anche su questo viaggio perché esso è avvincente.

La notizia delle avventure del Casanova e tra queste quella dell’incredibile fuga dai Piombi rendono aurea in Europa la fama del veneziano. Ovunque egli arrivi è trattato con il massimo riguardo e può in grazia dei ritratti che di lui tracciano i viatori del secolo cosmopolita incontrare tutti i prominenti dell’epoca: Federico il Grande, Caterina II di Russia, Voltaire.

Da una fonte germanica traggo queste note sull’incontro avvenuto di Casanova con Federico il Grande. Si trattò d’un colloquio di circa tre quarti d’ora su vari argomenti che possiamo, se non conoscere con esattezza, almeno immaginare considerato il comune spassionato interesse per la filosofia, la disillusione sulle virtù conclamate, la provvida miscredenza nelle troppo facili consolazioni religiose. Alla fine dell’incontro è nota la professione di ammirazione che il Re prussiano espresse a Casanova in merito alla sua avvenenza fisica, poiché il veneziano era molto alto e ciononostante aggraziato, ma assai meno nota è la risposta del Casanova, dalla fonte riportata sembra quasi con una certa soddisfazione: …ma Sire, dopo che Vostra Maestà per mezz’ora ha parlato con me di varie scienze, Ella non ha da farmi altro complimento quale quello che Vostra Maestà può fare ad uno qualsiasi dei suoi granatieri subito dopo averlo scorto?... Indubbiamente al veneziano non difettavano doti di motteggiatore di spirito.

La fonte germanica racconta che il grande Federico di poi meditò ma non si sa con quanta convinzione, di affidare al veneziano la direzione di un collegio militare. Che l’offerta sia arrivata al Casanova è possibile ma è vero che il soggiorno in Prussia non si prolungò tantissimo e quindi dell’impiego, fosse esso prestigioso o meno, non è restata alcuna traccia. Ciarlatore il Casanova lo era, pure se di genio, e come tutti i ciarlatori era versato in molte cose, che lui peraltro sapeva elevarsi a fare con arte o quasi. Altrettanto è noto che egli abbia tentato d’essere ammesso o riconosciuto quale “matematico” dall’Accademia delle Scienze di Pietroburgo. Storici della matematica hanno in effetti riconosciuto allo smargiasso di laguna conoscenze non comuni di matematica superiore ma di qui all’essere ammessi in una cerchia che annoverava un Eulero quale corrispondente il passo era forse troppo azzardato.

Ma cosa importa tutto ciò e tutto il resto che viene raccontato d’una vita eccezionale ma ormai troppo lontana nel tempo a fronte dello splendore di quell’istante nel quale 

tra il fin d’ottobre e’l capo di novembre

lui esce a riveder le stelle e noi, con lui, riassaporiamo di nuovo, fuggiti dal di sotto d’una cappa di piombo oscuro e piagato, il puro infinito blu della volta siderea?

In Chioggia, pomeriggio del 31 ottobre di tanti anni dopo.


Poscritto

Il lettore se può dopo queste poche linee si legga anche la voce dedicata al fratello Francesco Casanova sull’Enciclopedia del senatore Treccani. Era, Francesco, un bravo pittore di accademia e la sua arte lo portò a trasferirsi, forse perché invitato, in quel di Dresda, la fiorentina e ateniese capitale sull’Elba del Regno di Sassonia. Giacomo Casanova, qualificato nelle grida del governo serenissimo, al suo inseguimento dopo la burla della fuga, quale “un borghese”, mentre lo scemo assoluto di padre Balbi era qualificato “un patrizio”, sostenne sempre di essere figlio illegittimo di Michele Grimani, un principe di antica e illustre casata. Che questa convinzione non sia la solita millanteria può essere, visto che la Zanetta Farussi era, come si sa, un’attrice di rango e fama, e a detta del Goldoni, molto bella e di spirito. I pregiudizi di casta in quel tempo erano fortissimi ma in fondo il ”possente volere”, der Wille, li aggirava a suo arbitrio. Quando Casanova lascia, in Dux, la scena dei viventi, per lui iniziata il due di aprile del 1725, sotto il segno dell’Ariete, è il 1798. In quella data Napoleone ha sigillato e chiuso con gesto d’imperio il manoscritto con il lungo racconto della Serenissima. 


 


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