Ritratto di una generazione muta: ROMANZO

Andavamo a letto dopo Carosello

Capitolo I. Equivoco, non confuso. II. E' dal nulla che mi tocca pensare

di Giovanni F.  Accolla

Andavamo a letto dopo Carosello

A ridosso degli accadimenti, cresce e si sviluppa una vita altra, un’altra esistenza che matura come un continuo, ininterrotto commento, come un sottotitolo infinito di un film muto: io sono il cronista di me stesso. Il mio regno interiore è la sola porzione di vero, di autentico, di comprensibile, ma non per questo comunicabile. Forse ragionando, si perde la ragione e la capacità di dire. Ciò che gli altri di me conoscono, suppongo non sia altro che l’automa della mia anima. All’interno un cratere, e fuori il volto della mia assenza, il mio destino. Il pensiero ha rinunciato allo specchio.

Ma non è neanche così. In realtà pian piano ho smarrito anche ogni minimo controllo su ciò che l’individuo fuori da me compie, o addirittura, pensa, pensando di pensare. Non credo, infatti, che egli pensi, che egli possa davvero pensare. Come sarebbe mai possibile che faccia e nel contempo pensi: io per poter pensare ho rinunciato ad ogni altra attività. Il solo pensiero mi riempie, mi satura e mi consuma.

Consacrare il proprio pensiero alla vita è la stolta illusione di chi ancora crede alla storia. La storia è il palcoscenico dei criminali.

Lo sguardo mio non è più sul nulla, ma è dal nulla che mi tocca pensare. Il filosofo dice che “l’inquietudine è il principio di tutto”, ed io sono stato e sono talmente inquieto che, confuso tra mille e più preliminari, non riesco a fare niente. Ho consumato l’illusione di completare la somiglianza tra creatore e creatura, perfino nella mia più intima dimensione.

Un giorno fu senz’altro la fantasia a generare la ragione, ed ora mi domando se un essere umano per funzionare bene non abbia bisogno di essere un automa o un assassino. L’idea di storia che è partecipazione, appartiene ai corpi. Il pensiero illumina soltanto se stesso, e la posta in gioco, non mi pare possa più dirsi che sia l’individualità. La verità, posto che esista, è l’unica a conoscere la propria esistenza, non c’è più cerchio da chiudere che non si sia serrato da sé.

Non so se esista l’anima dei corpi, se c’è qualcosa in grado di nobilitare i corpi. La carne dà il meglio di sé in macelleria, tanto poca emozione provocano ancora i trattati di ginecologia. Eppure conosco, o forse, riconosco, un certo sentimento del corpo che gli è proprio. Esso risiede nella partecipazione: il corpo è in grado di credere anima la comunanza, la partecipazione ad uno sforzo collettivo. Una battaglia, una partita di pallone, un corteo, il sesso, danno l’illusione, la piacevole speranza, di una trascendenza della carne. Ma certe certezze riguardano solo il corpo, ed alcuni politici che profetizzano l’accaduto.

“Esiste - si chiedeva Ignazio Silone - un participio passato di salvarsi?” Chi mai sarebbe in grado, oggi, di dare un senso compiuto al termine salvato. Ogni ipotesi di Dio, porta con sé una croce troppo pesante da potersi sopportare.

L’inattualità è il nostro destino: fino all’Apocalisse, ben oltre la nostra morte individuale, erreremo sul posto.

Per quanto mi riguarda, scrivo. Esco, delle volte, per trovare una via che sappia farmi tornare. Ma nella mia misura avverto solo lo smarrimento e una distanza priva di onore. Io sono in ciò che non dura. In ciò che non dura, io sono.

2. Continua    

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