Editoriale

La favola nera dell'Orchestra di Roma e del Lazio. Ovvero come i sindacati hanno distrutto la cultura musicale della Capitale

Ora tocca all'Opera di Roma, Muti se n'è andato e nessuno di qualche prestigio vuole sostituirlo

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

aro Direttore, cari Lettori,

si fa un gran parlare, in questi giorni, di Articolo 18, di Sindacati, di occupazione e anche di Teatro dell’Opera di Roma (che poi non è soltanto un prestigiosa istituzione culturale, ma anche un’importante fonte di lavoro qualificato). A questo proposito, vorrei raccontarvi una favola che ha come protagonisti proprio sindacalisti e musicisti: un accostamento che, presso il “grande pubblico”, appare quasi come un bisticcio di ruoli ma che, come ben sanno gli addetti ai lavori, presso il suddetto Teatro Costanzi rappresenta una realtà.

Appunto dal ruolo dei sindacati in un’Istituzione votata al culto dell’arte, della bellezza, della disciplina che deve conciliarsi, in un quotidiano equilibrio, con l’estro, può prendere le mosse di questa mia parabola, che rischia di essere premonitrice se riferita al destino del Teatro dell’Opera.

Dunque, c’era una volta un’Orchestra messa insieme da un gruppo di privati, disinteressati amanti della musica. Grazie all’intraprendenza, alla specifica cultura, allo spirito di sacrificio di questo gruppo di Fondatori, ed al loro acume nel saper scegliere soprattutto giovani musicisti dotati e sanamente ambiziosi, nel giro di pochi anni, quest’orchestra riusciva a raggiungere risultati – artistici ed amministrativi – di assoluto rilievo: basti dire che, trasformata la compagine in Fondazione ai sensi della “legge Veltroni”, tra i Soci entrarono a far parte il Comune di Roma e la Regione Lazio, che da poco si erano aggiunti, come semplici finanziatori, al Ministero per i Beni e le Attività Culturali.

Certo, non vanno taciuti i sacrifici e i meriti dei musicisti, i quali, sotto la guida di Direttori di prestigio - richiamati dalle capacità gestionali e relazionali di alcuni dei dirigenti della Fondazione – non solo affinavano le proprie qualità di esecutori, ma accettavano di lavorare chiudendo un occhio su certe inevitabili manchevolezze pecuniarie e normative a cui era improntato il loro rapporto di lavoro: stiamo parlando di trasferte disagiate senza la corrispondente contropartita, di straordinari non integralmente riconosciuti, di una totale assenza di qualsivoglia relazione sindacale.

Del resto, i rapporti erano improntati ad una cordialità e comprensione reciproche – ma soprattutto ad una rigorosa puntualità nel pagamento degli emolumenti, ad onta della cronica penuria di risorse finanziarie e dei cronici ritardi con cui venivano erogati i finanziamenti pubblici – tali da far sentire ogni componente dell’iniziativa (dirigenti, corpo orchestrale, collaboratori amministrativi) se non come componente di una famiglia, almeno come protagonisti di un’importante impresa artistica.

Nel giro di pochi anni, venivano conseguiti obiettivi quali:

il riconoscimento dello status di “Istituzione Concertistico Orchestrale” da parte del citato Ministero dei Beni Culturali, con conseguente accesso agevolato ai finanziamenti vagliati ed erogati in base all’attività svolta, con riguardo agli aspetti qualitativi e quantitativi;

l’accesso all’Auditorium di Roma, in qualità di ospite fisso (dove si faceva registrare una percentuale media di sbigliettamento di oltre il 90% della sala da 1.200 posti);

l’assunzione di gran parte dei musicisti a tempo indeterminato, sia pure in regime di “part time” verticale, in dipendenza della crescente, ma sempre limitata erogazione dei finanziamenti pubblici, dai quali dipendeva per il 90% e più la sopravvivenza dell’Orchestra stessa. E’ appena il caso di notare che, nel bilancio della Fondazione, i compensi dei Dirigenti e del Collegio Sindacale non superavano il 2-2,5% del totale: come dire, la quasi totalità delle entrate veniva destinata alla gestione ed allo sviluppo dell’attività.

Tutto bene, allora? Non proprio: forse per l’intervento di qualche strega – di quelle, ad esempio, che si offesero per non essere state invitate al battesimo della piccola Bella Addormentata, o di quegli stregoni che, protetti dallo scudo del Sindacato, menavano vanto di aver cacciato dal Teatro dell’Opera quel grande Direttore e Artista che fu Giuseppe Sinopoli – le cose cominciarono ad andar male, fino a sfociare nella chiusura di quell’Orchestra.

Si cominciò a contestare il Direttore principale di allora – un musicista straniero di chiara fama, che aveva portato un contributo decisivo alla crescita artistica dell’Orchestra – per poi puntare gli strali sugli Amministratori, tacciati dei peggiori crimini: dall’incapacità alla disonestà nella gestione dei fondi pubblici (di quest’ultima accusa hanno fatto giustizia le indagini della Guardia di Finanza, sollecitate da esposti e denunce dei rappresentanti sindacali dell’Orchestra e giunte a scagionare gli Amministratori e i Sindaci della Fondazione).

Per quei fenomeni di follia – o di viltà? – collettiva che si verificano in particolare nel mondo della musica (non è un caso se Federico Fellini decise di ambientare in un’orchestra la sua geniale parabola cinematografica), la gran parte degli orchestrali si allineò alle sciagurate iniziative dei pochi caporioni (il cui obiettivo finale, forse, era quello di impadronirsi della Fondazione senza tirar fuori un euro, scacciando ignominiosamente i vecchi soci e amministratori).

La proliferazione di controversie giudiziali, per lo più pretestuose, non solo azzopparono la serena operatività dell’orchestra, ma indussero il Comune di Roma ad uscire dalla Fondazione, ritirando il suo appoggio finanziario, e si spinsero fino a sabotare, con scioperi al limite (al limite?) della legalità, perfino l’attività minima prevista dalla legge, per accedere ai fondi del Ministero dei Beni Culturali.

La fine di questa favola nera? La chiusura dell’Orchestra e la perdita del posto di lavoro per tutti i dipendenti, responsabili e non, artisti e amministrativi.

Cosa c’entrano i Sindacati? Ma si deve appunto all’ingresso della “dialettica” sindacale l’inizio di una spirale di conflittualità sempre meno governabile; si deve alla loro rigidità nel rifiutare qualsivoglia forma di intesa con una Dirigenza che aveva concesso tutto il concedibile, tranne l’ampliamento dell’attività (non praticabile, dato lo standard dei fondi pubblici a disposizione) l’impossibilità di andare avanti.

Va detto che non tutte le sigle sindacali hanno svolto lo stesso ruolo devastante, proprio come accade per l’Opera di Roma; ma tant’è: se non si capisce che - non da oggi - la prepotenza non paga, che per la difesa dei posti di lavoro conviene, al lavoratore in primis, assumere a volte un profilo basso e non conflittuale, che l’eventuale reintegro giudiziale non garantisce un effettivo reinserimento, perché, specie quando gli equilibri sono fragili e precari, poi le aziende – soprattutto quelle “piccole” e operanti nel campo della cultura e dell’arte – sono costrette a chiudere, con danno per tutti.

Ecco, questa è la favola, con il suo triste finale. I protagonisti? L’Orchestra di Roma e del Lazio, la Regione Lazio, la CGIL, la FIALS, l’UIL. Quell’Orchestra si era conquistata un posto di primo piano sulla scena nazionale, sia pure senza poter ambire agli standard – e nemmeno al sostegno economico e mediatico - delle più celebrate Consorelle.

Alcuni di quei protagonisti sono anche al centro delle vicende che stanno turbando l’Opera di Roma, che per ora ha dovuto rinunciare ad una figura prestigiosa come quella del Maestro Riccardo Muti. Speriamo che, sulla via delle rinunce, domani non sia Roma a dover fare a meno di una delle sue principali Istituzioni culturali.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da Palestrina il 14/11/2023 09:27:56

    Gentile dott. Del Ninno, mi chiamo Sandro Gabrieli, forse il mio nome, non Le dice nulla, ma sono stato un violinista della Regionale fin dai primi giorni, quando si cercavano i musicisti per formare l’orchestra tramite la loro fama, quindi tanto tempo prima del Suo avvento; tuttavia, non ci crederà, ma negli anni a seguire, non è mai successo che Ella mi abbia mai rivolto un semplice buongiorno e d’altronde io non sono mai venuto a baciarle la pantofola. Ma comunque, al di la di questo particolare, si, perché Lei sa meglio di me, visto l’antefatto, che l’educazione di base e la cortesia non albergano in un contesto come quello di un’orchestra, mentre invece, che so, in una banca si; comunque al di la di questo, dicevo, sono arrivato a leggere il Suo articolo navigando su internet, ma come non saprei. Leggendo, sono rimasto sorpreso del fatto che una persona come Lei, alto rappresentante del mondo bancario romano (così era stato presentato a noi poveri e disagiati orchestrali), persona dunque “ruvida e concreta e ben intesa alla moneta”, mi passi la Gozzaniana citazione, racconti delle favole su una sua creatura musicale, sua e di “un gruppo di privati, disinteressati amanti della musica”, sorvolando elegantemente su “i sacrifici” e l’accettare “di lavorare chiudendo un occhio su certe inevitabili manchevolezze pecuniarie e normative a cui era improntato il loro rapporto di lavoro”, continuando poi con “trasferte disagiate senza la corrispondente contropartita, di straordinari non integralmente riconosciuti, di una totale assenza di qualsivoglia relazione sindacale” come se queste piccole cose fossero dovute. Exusatio non petita…. Si, dottor Del Ninno, perché con queste Sue parole Ella sta ammettendo ed esponendo senza ritegno tutte le ingiustizie che ho dovuto subire in quei lunghi e tormentati anni, e parlo in prima persona intendendo che sia io che Lei (mi scusi l’ardito accostamento) sappiamo che non ero il solo a tollerarle. Ora egregio dottor Del Ninno, sono straconvinto che ne Lei ne altri chiederebbe all’ultimo impiegato della banca più di tutte sperduta nel più remoto paese del Lazio, (perché stiamo parlando dell’Orchestra Regionale del Lazio), di fare “trasferte disagiate senza la corrispondente contropartita”, oppure lavorare in orario straordinario “non integralmente riconosciuto”, oppure, meglio ancora, se lo avessero chiesto a Lei di lavorare in simili condizioni, chissà come sarebbe andata. Sono andato via dalla Regionale quando la sua produzione concertistica era quasi annuale, quando cioè avevo finito di far “sacrifici” e l’Orchestra navigava ormai verso il futuro, insomma anche i miei sforzi avevano prodotto dei risultati dando ad altri un posto di lavoro pressoché sicuro, ma del mio investimento decennale non ne ho rivisto punto. Non so poi che tipo di relazioni abbiano tenuto i sindacati con Lei e con la “ Dirigenza”, ma ho saputo che fra le tante giuste recriminazioni dei cattivissimi sindacati c’erano anche quelle citate con sfacciata leggerezza da Lei, ossia “le trasferte disagiate gli straordinari” ecc. A proposito, io di straordinari in Regionale non ne ho mai visto l’ombra, nemmeno di quelli “non integralmente riconosciuti”. Quanto a me, subito dopo l’uscita dall’ORL, chiesi un prestito in una banca (forse quella dove lavorava Lei) per pagarmi gli arretrati che avevo accumulato in anni di irregolare remunerazione da parte della dirigenza dell’ORL, altro che “una rigorosa puntualità nel pagamento degli emolumenti, ad onta della cronica penuria di risorse finanziarie e dei cronici ritardi con cui venivano erogati i finanziamenti pubblici” e non scrivo qui quello che ho dovuto affrontare per rimettermi bene in carreggiata, perché mi parlerei addosso e racconterei un’altra reale e concreta favola, stavolta, per fortuna, a lieto fine, ma Le racconto però di una coppia di colleghi, anche loro della Regionale, i quali andarono in banca (toh !!) a chiedere un mutuo presentando il cedolino, nel periodo dei “sacrifici”, ricevendo come risposta una risata beffarda da un impiegato di banca, che forse chissà, anche lui, nella sua carriera, ha affrontato “trasferte disagiate senza la corrispondente contropartita, straordinari non integralmente riconosciuti e una totale assenza di qualsivoglia relazione sindacale” ecc. ecc. Quanto a Lei, dottor Del Ninno, mi permetta, la sua è stata una bella esperienza e la ricordi come tale, lasci fare queste cose alle persone che hanno rispetto del lavoro del musicista, si, perché quello di musicista è un lavoro come gli altri, e questo nel suo bell’articolo non traspare in maniera fattiva perché, un musicista vive come tutti di lavoro e “assumere a volte un profilo basso e non conflittuale” inficerebbe la creatività di una “istituzione votata al culto dell’arte, della bellezza, della disciplina che deve conciliarsi, in un quotidiano equilibrio, con l’estro”, e perciò, detto questo, dottor Del Ninno, si dedichi alla famiglia se ce l’ha, magari qualcuno tra i suoi nipoti da grande suonerà uno strumento da professionista, e allora anche Lei capirà meglio le mie parole. Cordialità

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