Editoriale

Germania-Argentina: simboli, metafore e scorate riflessioni sul nostro calcio

Alla vigilia della partita per l'assegnazione della coppa del mondo

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

unque, i mondiali di calcio stanno per celebrare il loro epilogo con la finale Argentina-Germania. Ma qui non vogliamo entrare – invadendo il campo occupato dagli specialisti – nel merito sportivo della contesa, bensì sottolinearne alcuni aspetti simbolici, che poi costituiscono l’essenza di questo sport.

Si incontrano dunque, per aggiudicarsi il titolo, la rappresentativa di una paese latino-americano che fatica a uscire dalla devastante crisi economica esplosa anni addietro e quella della maggiore potenza economica d’Europa; la prima, caratterizzata dalla fantasia dei suoi atleti, indotti a cercar fortuna all’estero; la seconda, connotata dalla grande capacità organizzativa e formata per lo più da calciatori che giocano in patria, anche quando questa patria non è quella di origine.

L’Argentina, un po’ come gli Stati Uniti, costituisce un “melting pot” di razze e nazionalità ormai amalgamate fino a dar luogo ad un patriottismo senza sfumature; la Germania – diversamente dalla Francia e dall’Inghilterra, dove il fenomeno ha scaturigini coloniali  – deve invece la variegata composizione della sua rappresentativa al fatto di essere una delle mete preferite di chi, dal Sud del mondo, va in cerca di una miglior vita.

Si aggiunga, per metterci un po’ di colore, che ciascuna delle due contendenti dispone di un – teorico? - tifoso fuori dal comune, come papa Bergoglio e il pontefice emerito Ratzinger.

Di passata, faremo notare come proprio nel mondo del calcio si siano avviati, in anticipo rispetto alla società civile, processi di integrazione capaci perfino di rinsanguare il patriottismo nel singoli paesi (ricordate il fervore con cui cantavano la Marsigliese i giocatori, in gran parte africani, che portarono la Francia a vincere i mondiali del 1998?).

Insomma, da tempo dovremmo aver capito che il calcio non è più quel passatempo per i rampolli dell’aristocrazia britannica che era nella sua fase aurorale di fine Ottocento; eppure, non mancano, ancor oggi, soprattutto nel ceto intellettuale, sussiego e indifferenza, nei confronti di questa disciplina sportiva diventata industria e che, specialmente in occasione dei mondiali, attira le attenzioni di miliardi di spettatori, in ogni plaga del pianeta.

Il problema è che, sia pure in misura residuale, sussistono e si agitano nei media deliberate sottovalutazioni del fenomeno, a dispetto del suo spessore non solo economico e sociale, ma anche politico e culturale.

Il calcio rappresenta infatti una chiave di lettura importante per decifrare il cammino di una Nazione e, più in generale, per individuare gusti, sensibilità, orientamenti di masse crescenti, avvicinatesi al calcio soprattutto grazie alla televisione.

Intanto, diciamo che, come ogni manifestazione dell’agire umano, il calcio è un ricettacolo di contraddizioni. Nei suoi vertici, esalta infatti i miti del successo e della ricchezza, lasciando in ombra la stragrande maggioranza dei praticanti, “condannati”, nel migliore dei casi, ad un felice dilettantismo, e nei peggiori, alle più cocenti delusioni, ma anche ad una esistenza grama, per non aver trovato altre occasioni di riscatto sociale.

Si avvale poi dei più sofisticati strumenti della tecnica di comunicazione, ma rifugge dagli apporti di quella stessa tecnica, per emendare il più possibile dagli errori il comportamento dell’Arbitro, nel timore che vengano intaccate le prerogative del potere calcistico (non solo a livello arbitrale, ma di Federazioni).

Appare all’avanguardia, il calcio, in materia di disciplina dei rapporti di lavoro, quando tutela i diritti del principale prestatore d’opera, ad esempio con la sentenza Bosman, che affranca il calciatore dalla schiavitù nei confronti delle società che ne posseggono il cartellino; ma si attesta poi su posizioni retrograde, quando sanziona la libertà di espressione occasionalmente esercitata dai tesserati o quando impone agli stessi di non rivolgersi alla giustizia ordinaria, in caso di controversie civili e/o penali. Per tacere del ricorso al principio della responsabilità oggettiva, ormai percepito ai limiti dell’antigiuridicità.

Ancora: come ogni altra disciplina sportiva, il calcio si pone anche finalità pedagogiche, puntualmente contraddette e vanificate soprattutto in dipendenza dalla progressiva mercificazione delle prestazioni e del loro “indotto” - si pensi ai diritti di immagine – a scapito di altri valori, quali la sobrietà, lo spirito di sacrificio, l’attaccamento ai simboli della squadra, che rappresenti la patria o la città per i cui colori si gioca.

Si invoca il professionismo, per dissimulare dialetticamente l’avidità di troppi calciatori – e procuratori… - al punto di far rimpiangere i tempi di Attila Sallustro, grande centravanti del Napoli negli anni 20 del 900, il quale dovette chiedere il permesso al padre per giocare nella squadra partenopea e lo ottenne, a patto di non farsi pagare… E tralasciamo lo spettacolo grottesco e ridicolo di tante acconciature e di tatuaggi ostentati da troppi campioni, veri o presunti…

Torniamo però agli aspetti positivi del calcio, che ne fecero – e ne fanno -  innamorare personalità eminenti e disparate come Che Guevara e Umberto Saba, Henry de Montherlant e Manuel Vazquez Montalban, Giovanni Arpino e Giampiero Mughini, Javier Marìas e Nick Hornby, per tacere, appunto, di papa Bergoglio, “tifoso” della sua Argentina e del San Lorenzo, la squadra dei salesiani di Buenos Aires, recentemente “scudettata”. Metafora della guerra al pari dei tornei medievali, il calcio ha non di rado offerto l’occasione di incontri forieri di trattative di pace a popoli in guerra, o ha fornito  la testimonianza  di uno sforzo collettivo che andava ben al di là dell’episodio sportivo.

Pensiamo alla vittoria della rappresentativa della Germania Ovest ai mondiali del 1954, la nazionale di Helmut Rahn e di Fritz Walter, che dette un segnale forte della ricostruzione in atto nel loro paese distrutto dalla guerra; pensiamo alla Honved di Puskas, di Boszic e di Kocsis, eroi non solo calcistici dell’Ungheria che si ribellava ai Sovietici; pensiamo al primo incontro, dopo la guerra della Falkland-Malvinas fra Inghilterra e Argentina, o a quello fra Iran e Irak, dopo il lungo, sanguinoso conflitto degli anni 80…

Soprattutto, il calcio è l’immagine di quello che sono i popoli di volta in volta rappresentati negli stadi: nel nostro caso, l’Italia in marcia verso la modernità e in cerca di un ruolo di prestigio nel concerto delle Nazioni, seppe conquistare due titoli mondiali nel 1934 e nel 1938, e non fu da meno, fino a pochi anni, fa, l’Italia del pallone che quel ruolo – purtroppo sulle base di aspettative superficiali e infondate – cercava di mantenerlo, danzando, anzi, dribblando, sull’orlo di un precipizio scavato dall’enorme debito pubblico, da un welfare al di sopra delle nostre possibilità, dal logoramento del tessuto morale collettivo – erano gli anni della “Milano da bere” e del primo “calcioscommesse”- dall’esaurimento di una spinta creativa e di una adeguata capacità produttiva del paese.

L’Italia calcistica di oggi – già da due edizioni del mondiale – non riesce neppure a superare la fase a gironi, in linea con un paese in preda ad una depressione collettiva e a un disorientamento senza precedenti, un Italia che, anche nel calcio, non riesce a dare spazio ai giovani e si nega, in tal modo, al futuro.

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da ghorio il 12/07/2014 11:46:10

    Posso condividere nella sostanza tante considerazioni di Giuseppe Del Ninno ma su un punto ho qualche perplessità, quello legato al calcio come riscatto di una nazione. Diciamolo francamente: nel mondo calcistico c'è abbondanza di soldi, come del resto, in tutti gli sport professionistici. Questo porta a degenerazioni che andrebbero combattute.In ogni caso l'orgoglio di una nazione non poggia sul calcio o su un altro sport. In Italia , sbagliando secondo me, si è collegato l'inno nazionale alla squadra di calcio. In questo caso mi tocca leggere ogni quattro anni che gli italiani sono uniti solo dalla nazionale di calcio. Il che mi porta a grandi arrabbiature. Tra l'altro nel campo dilettantistico, in questa marea di danaro, le squadre delle varie categorie, per iscriversi ai campionati debbono versare fior di soldi, con la Federazione che sperpera in largo e in lungo. Di conseguenza bisognerebbe guardare al calcio con un certo distacco. In passato si scriveva ogni giorno che il nostro è il campionato più bello del mondo, il che non era e non è vero. In ogni caso il calcio bisognerebbe guardarlo , come tutti gli sport, con un certo romanticismo. Su questo aspetto preferisco i presidenti di calcio alla Boniperti, anche come giocatore, che contrattava direttamente gli emolumenti dei giocatori, senza i procuratori , i quali con calciopoli dovevano essere aboliti ed invece sono sempre più potenti.

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