Editoriale

Il fallimento dell'Europa e il futuro buio e tempesto che ci aspetta

Se gli equilibri non cambieranno tutto ciò che è stato mal fatto ci imporrà un prezzo ancora più alto e odioso

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

omenica 25 si voterà per eleggere i membri del nuovo Parlamento Europeo e, dunque, gli Organi dell’Unione. Come sempre, in particolare da noi, i risultati influenzeranno gli equilibri parlamentari e gli assetti politici dei singoli Stati: avremo modo di commentarli, a urne chiuse; oggi però vorremmo ricordare che al centro delle nostre attenzioni di cittadini dovrebbe essere l’Europa, non soltanto con le sue istituzioni, ma anche con la sua anima, con i suoi retaggi, con i progetti di cui le singole forze politiche in competizione sono portatrici.

In questi giorni, la televisione di Stato ci sta bombardando con spot che illustrano al tempo stesso “l’antichità” e la bellezza dell’idea di Europa, fino agli esiti attuali, che esaltano la fine delle ataviche belligeranze e l’instaurazione di una pace stabile: la realizzazione del sogno dei “padri fondatori” Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, poi ripreso da Robert Schuman e da Konrad Adenauer, al termine delle due sanguinose “guerre civili europee”. 

Ebbene, anche la mia generazione, specialmente quella che si è riconosciuta nella destra politica, ha cullato il “sogno europeo”. La nostra era l’Europa della civiltà greco-romana e della sua prosecuzione nel Sacro Romano Impero, era la patria comune di Omero e Dante, di Rembrandt e di Michelangelo, di Bach e di Verdi, di Leonardo e di Valadier, di Tolstoj e di Heidegger, di San Francesco e Santa Teresa d’Avila, di Colombo e di Vasco de Gama, di Carlo Magno e di Federico II, di Machiavelli e di Bodin, e di cento e cento altre figure di artisti, condottieri, sovrani, pontefici, politici, fino ai nostri giorni. 

Un sogno ispirato dai grandi personaggi, ma poi sostanziato da popoli intraprendenti e orgogliosi, capaci di grandi sacrifici e di visioni di ampio respiro, dai mercanti-avventurieri delle repubbliche marinare ai missionari, dalla Compagnia delle Indie alla lega delle città anseatiche.

Si trattava di dare concretezza a questo sogno, avviando un processo di unificazione politica, culturale, militare ed economica del continente: a che punto sia questo processo, è sotto gli occhi di tutti, e così pure quale sia lo spirito che anima i cittadini europei, divisi fra delusi, indifferenti, ostili e tiepidi sostenitori – forse più impauriti dalle alternative “isolazioniste” che non convinti dal progetto di unificazione in primo luogo monetaria – di questa Europa dei Banchieri e dei Burocrati.

Mai come in queste elezioni, pur nella limitatezza dei poteri delle attuali Istituzioni europee, è apparsa e appare chiara e condivisa la necessità di cambiare, e mai come adesso le “vecchie” contrapposizioni fra socialisti e popolari denunciano la loro obsolescenza, essendo il campo diviso fra “conservatori” (degli attuali equilibri) e innovatori, sia pure, questi ultimi, nel nome di progetti e visioni del mondo in conflitto, quali quelli della sinistra incarnata da “Tsipras”, da un lato, e dalle varie sigle populiste e nazionaliste, dall’altro.

C’è solo da augurarsi che gli avversari dell’odierna Europa di Bruxelles e Strasburgo sappiano superare le ragioni che li dividono, valorizzando nella loro azione all’interno delle Istituzioni quelle che li uniscono. 

Sulle motivazioni della critica a “questa” Europa, si sono versati fiumi di inchiostro, fra articoli e saggi; qui vorremmo ricordare solamente quelli di tre Autori, diversi per storia personale, collocazione politica e argomentazioni, ma convergenti in una analisi lucida e spietata del fenomeno.

Alludiamo all’Enzensberger de “Il mostro buono di Bruxelles”, alla Ida Magli de “La dittatura europea”, all’Alain de Benoist de “La fine della sovranità”, appena uscito in Italia, quest’ultimo, per i tipi di Arianna Editrice.

In tutti e tre questi Autori appare cruciale, sia pure nelle differenti declinazioni, la questione della volontà popolare – per consolidata tradizione, espressa con i meccanismi e le regole della democrazia – con quella strettamente ad esse collegata della sovranità e della sua necessaria, graduale rinuncia da parte dei singoli Stati; rinuncia alla sovranità che oltretutto, fino ad ora, ha avuto contropartite davvero scarse.

Intanto, passiamo dai sogni alla realtà: le cronache di questi anni ci mostrano, specie nell’ottica di paesi come l’Italia, un’immagine dell’Unione Europea come quella di un’Entità ostile, e non solo per le restrizioni alle nostre produzioni migliori; qui ci riferiamo ad alcune questioni eminentemente politiche, dove sono state prese decisioni a discapito dei nostri interessi nazionali, come nel caso  dell’attacco a Gheddafi (a vantaggio della Francia) e in quello delle oscure trame in danno del governo Berlusconi, di cui al libro dell’ex ministro del Tesoro USA, Timothy Geithner, che indirettamente coinvolge Germania e – ancora - Francia; senza dimenticare il nodo di tragica attualità e ancora da sciogliere dei flussi migratori (di cui l’Unione Europea continua a disinteressarsi, come se i confini dell’Italia non fossero anche quelli del Continente).

Quali siano i limiti del processo di integrazione lo sappiamo tutti: l’unificazione monetaria, che – caso unico nella storia – doveva costituire il preludio a quella politica, si è rivelata carente e oppressiva: se è vero che ha svolto una funzione stabilizzatrice soprattutto nei confronti delle spinte inflazionistiche, è innegabile che, anche sulla scorta di cambi forzati e non rispondenti alle effettive condizioni delle singole economie reali nazionali, ha generato un progressivo e generalizzato depauperamento di molti popoli d’Europa (segnatamente di quelli mediterranei). 

Si aggiunga che la “religione di Maastricht”, incardinata su parametri astratti e pretesi immutabili, ha dato luogo a una depressione produttiva e ad una crisi occupazionale senza precedenti. 

Sullo sfondo, una Banca Centrale con poteri d’intervento soltanto mediati, a favore cioè delle Banche dei vari paesi, ma non degli Stati, e la resistenza della Germania, da sempre egemone in tale contesto, a porre in essere misure autenticamente “comunitarie, come poteva essere il ricorso agli “eurobond”. 

Il tutto, nel quadro di una Costituzione elaborata da cerchie di politici deboli o in malafede, sotto tutela di burocrati e di lobbies finanziarie, priva di un vero respiro di civiltà e dove si è scelto di non riconoscere le radici cristiane dell’Europa. 

E sì che basterebbe aggirarsi per le piazze dominate dalle cattedrali di Amsterdam e di Praga, di Strasburgo e di Palermo (per tacere di Roma, ovviamente) per arrendersi all’evidenza!

E’ poi appena il caso di ricordare il “vulnus” inferto ai principi democratici, col voler sottrarre alla convalida di una diretta approvazione popolare – col pretesto della democrazia rappresentativa! – sia i trattati di Maastricht sia la stessa Costituzione. 

Tutte queste considerazioni – incomplete e non inserite in un quadro organico: ce ne rendiamo conto – indurrebbero a un duplice atteggiamento alternativo, di fronte alle urne: disertarle o convogliare i consensi sui partiti, i movimenti - e le auspicabili alleanze future – fieramente avversi a questa Europa non già dei sogni, ma degli incubi usuro-tecnocratici.

Non è un caso, infatti, se, al di là delle polemiche legate alle situazioni interne ai singoli Stati, si colga, nelle due principali “famiglie politiche” del Parlamento Europeo, quella socialista e quella popolare, una comune preoccupazione e una generalizzata ostilità nei confronti dei populismi critici verso “questa” Europa.

In conclusione, non so se la pura e semplice uscita dall’euro sia praticabile – e conveniente – oppure se la permanenza nella moneta unica sia suscettibile, da subito, di modifiche, più necessarie che opportune; ma so che se domani non cambieranno radicalmente gli equilibri nelle Istituzioni europee, che vinca Schulz oppure Juncker, ci aspetterà - soprattutto a noi italiani - un futuro buio e tempestoso.





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