Editoriale

Retorica e politica. Ieri e...oggi?

La retorica non è più il nome di una dottrina e di una pratica, né è una forma di memoria culturale; diventa invece qualcosa di simile alla condizione stessa della nostra esistenza . - John Bender e David E. Wellbery

Ivan Buttignon

di Ivan Buttignon

a retorica può ben essere definita l’arte della persuasione. Vale a dire il tentativo dell’uomo di influenzare gli altri attraverso la parola.

La retorica è pura pratica, quindi. Lo spiegava già Aristotele, definendola una téchnè, termine che rappresenta la radice di tecnica e tecnologia (è per questo che Aristotele la contrapponeva alla filosofia in uno schema dicotomico retorica - filosofia, cioè pratica e teoria). La retorica è quindi pratica e tecnica, uno strumento che, una volta ben maneggiato, ci porta a un fine[1]. Molto tempo fa, quando venne inventata (era il V secolo a.C., il 465 circa, la località Siracusa), fu immediatamente adottata in due ambiti principali: la macchina governativa e le aule del tribunale. I due ideatori di questa disciplina, Corace e Tisia, forse neppure immaginavano un così rapido successo della loro invenzione.

La tradizione vorrebbe che Corace a un certo punto sia intervenuto nella sua prospera Siracusa, città-stato sulla costa orientale della Sicilia, per riportare ordine dopo la cacciata di un tiranno chiamato Trasibulo. Prese la parola e placò gli animi con parole ossequiose e adulatorie, poi blandì i presenti per raccontare una storia, seguita da un richiamo agli episodi accaduti in precedenza e un “ripasso” di era stato detto prima. Ecco quindi gli argomenti stagliati in una scaletta ordinata, che rappresenta il primo caso di questo genere, un vero e proprio precedente di una scaletta retorica (strutturata da regole retoriche standardizzate), composta da “introduzione”, “narrazione”, “discussione”, “digressione” ed “epilogo”. Ciò che iniziò Corace, fu diffuso nel mondo da Gorgia, studioso originario di Leontini, città siciliana a nord di Siracusa. Nel 427 a.C. Gorgia emigrò ad Atene e portò con sé la retorica, mettendosi a insegnare a pagamento e innescando una sorta di big bang nella materia. Nel giro di una generazione, Atene pullulava di maestri e discepoli di retorica. Questi, chiamati sofisti, affiancavano i logografi, cioè una classe di autori di discorsi. Non è un caso si sia diffusa proprio nella città greca, visto che rappresentava il luogo nel quale era in corso un esperimento di democrazia radicale e senza precedenti. Non stupisce dunque che la prospettiva di imparare a parlare di fronte a un vasto uditorio risultasse interessante per l’aristocrazia ateniese, la classe tradizionalmente al potere, ferita ma non sconfitta dall’avvento della democrazia. Mentre Gorgia e gli altri sofisti operano in modo disordinato, Aristotele pone un po’ di ordine e organizza la retorica, nell’omonima opera, in deliberativa, giudiziaria ed epidittica; triadi, queste, che hanno resistito alla prova del tempo[2].

Pensare alla retorica significa pensare a qualcosa che sta a fondamento della politica, nel dna della nostra cultura e alla base del funzionamento della mente umana. Non usiamo il linguaggio per trasmettere semplicemente informazioni, senza nessun altro intento. Scambiamo informazioni perché riceviamo in cambio qualcosa di vantaggioso, come soldi, legami, carriera. Ci porta lontano dai problemi o dentro un letto.

In altre parole la retorica è il linguaggio legato ai desideri. Ecco quindi perché esiste la retorica: perché l’uomo è un essere desiderante.

La retorica non è una questione di stile. Nel senso che non esiste uno stile retorico e uno che non lo è. Lo stile funzionale alla una nostra particolare finalità è retorico. Cambiando la finalità, è probabile che cambierà anche il nostro stile.

Facciamo un esempio. Non consideriamo certo retorico lo stile sobrio. E invece, se si dimostra efficace a raggiungere il fine perseguito, riflette una strategia più retorica dello stile elevato che ci apparirebbe invece gigionesco o falso. Essere antiretorici, insomma, è solo un’altra strategia retorica. Viceversa, talvolta sembra retorica (ma evidentemente non lo è) il linguaggio che non funziona. Se il pubblico lo considera retorico, l’artifizio è scoperto e lo stile non è ovviamente quello adatto.

Bisogna fare attenzione su questo. Esiste una tradizione consolidata che risale a Platone di ostilità verso la retorica, che è vista come lo strumento dei demagoghi e dei bugiardi. Questo perché aveva capito come la folla potesse essere influenzata con facilità ed era rimasto traumatizzato dalla condanna a morte del suo maestro ed eroe Socrate. Inoltre, lo insospettiva la natura strumentale dei metodi torbidi della persuasione, in contrasto con la logica stringente della ricerca filosofica. Platone attacca la retorica più volte ma soprattutto nel suo Gorgia, in cui immagina che Socrate (suo maestro) sottoponga a un terzo grado il retore eponimo[3].

Ma la retorica di per sé non è né buona né cattiva, è solo una tecnica, uno strumento per raggiungere un obiettivo. Casomai è l’obiettivo a essere buono o cattivo. Come affermava il grande maestro di retorica del diciottesimo secolo, Hugh Blair (1718-1800), “La retorica serve ad aggiungere brillantezza; ma sappiamo che solo un corpo saldo e solido può venir ben lucidato”[4].

Ogni riferimento alla situazione politica italiana è assolutamente voluto.



[1] S. Leith, Fare colpo con le parole. Trattato spregiudicato di retorica da Aristotele a Obama, Ponte alle Grazie (Adriano Salani Editore), Milano, 2013, pp. 7-8.

[2] Ibidem, pp. 24-33.

[3] Ibidem, pp. 31-32.

[4]H. Blair, Lectures on Rhetoric and Belles Lettres, Edinburgh, 1783, p. 11.

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