Editoriale

Papa Francesco e il Lupo. La vera storia di Bergoglio nell'Argentina della dittatura

Troppe voci dal sen fuggite, troppe superficiali affermazioni non documentate, troppi giudizi affrettati sul pontefice che ci ha incantato

Andrea Velardi

di Andrea Velardi

n sostituto di qualità inferiore, simile all’acqua impastata con la farina usata dalle madri indigenti per ingannare la fame dei loro figli”. E ancora: “un conservatore populista che cercherà di introdurre cambiamenti estetici con le sue doti attoriali”. E ancora: una Ersatz. Una pappetta traducono male alcuni giornalisti. Ma Ersatz in tedesco è un termine più peculiare. Vuol dire surrogato, rimpiazzo. Come se uno facesse il caffè con la cicoria. Ersatzkaffee è il caffè finto dato ai militari in guerra. Non traducibile affatto con il nostro ciofeca che invece indica il caffè vero venuto male.

Va giù duro contro papa Francesco il suo più tenace avversario, quell’Horacio Verbitsky che non lesina frasi lapidarie e invettive nel suo editoriale su Página/12, il giornale di estrema sinistra di Buenos Aires. E si capisce perché il suo soprannome fra i colleghi sia “El perro”, “Il cane”, a indicare la sua determinazione nella caccia di notizie e storie sepolte, soprattutto quelle degli anni della dittatura dei generali. Ma anche nel non lasciare la preda nemmeno dopo aver visto che si tratta di una creatura inerme, tenera ed umile incapace di opporsi con la medesima ferocia.

Passando ad un’altra immagine viene subito alla mente quella di San Francesco con il lupo di Gubbio. Speriamo davvero che papa Bergoglio riuscirà piano piano a sgretolare il pregiudizio contro la sua persona che pervade tutti i libri di “El Perro”, del lupo della guerriglia anti-peronista e del giornalismo di inchiesta argentino.

Dal fronte cattolico c’è chi ribatte alle accuse di Horacio Verbitsky additandolo come un semplice rivoluzionario appartenente alla guerriglia marxista dei Montoneros. Un ex sovversivo in preda ad un compulsivo accanimento anticlericale. Anche lui ha avuto bisogno di chiosare il suo passato, ridimensionando di gran lunga il suo impegno nelle falangi della lotta armata. In una intervista al Perfil del novembre del 2007 si schermiva di avere visto solo due volte in tutta la sua vita il fondatore Mario Eduardo Firmenich assassino dell’ex dittatore Pedro Eugenio Aramburu, sottoposto al cosiddetto juicio popular, e principale responsabile del massacro del 9 giugno 1956. Ma questo sarebbe un argumentum ad personam molto ingiusto nei confronti di un uomo che ha subito l’esilio in Perù per la sua appartenenza alle frange del terrorismo antiregime e nei confronti di un giornalista pieno di meriti nel campo della difesa dei diritti umani. E’anche improprio per difendere con coerenza l’operato di Giorgio Mario Bergoglio che, alla luce dei fatti, non è colpevole di alcuna connivenza con la dittatura. Qualunque sia il giudizio libero che ognuno si può fare sulla opportunità contingente di alcune scelte che il giovanissimo provinciale dei gesuiti si è trovato a dover prendere in una situazione storica confusa, torbida, difficile nella quale ogni mossa era potenzialmente foriera di conseguenze sbagliate e dolorose.

Nel cercare di collocare al meglio l’operato di Bergoglio non ci sogniamo affatto di voler passare all’eccesso opposto cioè quello di denigrare indiscriminatamente Horacio Verbitsky, direttore del Centro di Studi Legali e Sociali (CELS), fondato da Emilio Mignone, autore di “Chiesa e dittatura”, il primo libro dedicato ai rapporti oscuri fra le gerarchie e la dittatura dei generali. Un uomo che ha creduto davvero nella sua missione, di cui non si può non condividere l’idea che “il giornalismo è diffondere quello che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda”.

Penso che il miglior modo per affrontare le accuse contro Bergoglio e la Chiesa sia quello di cercare una riconciliazione storica fra le due prospettive. Verificando le accuse eccessive prive di fondamento lanciate da Verbistky. Ma nemmeno agendo con la superficialità con cui viene liquidato il lavoro come fa ad esempio la scrittrice italiana Michela Murgia nel suo blog definendo con semplicismo Verbistky “giornalista e militante politico dapprima vicino al gruppo guerrigliero dei Montoneros, ora al governo Kirchner”. Come a dire uno squallido opportunista. No. Verbistky è qualcosa di più, di molto di più. E Michela Murgia non può liquidare con un post la tremenda ferita storica della dittatura dei generali e la tragedia dei decaparecidos. Commettendo un errore speculare a quello dei tweet contro il Papa.

Verbistky va differenziato, a mio avviso, da quella campagna «calunniosa e diffamatoria», di «evidente matrice anticlericale» cui si riferisce il capo ufficio stampa della Santa Sede Padre Lombardi. E va capito nella complessità del suo operato, come cerchiamo di fare per un Papa che ci ha conquistati con il suo francescanesimo così moderno. Come ci ha insegnato il Premio Nobel per la pace Adolfo Perez Esquivel che ha ripetuto con fermezza l’estraneità di Bergoglio, ma anche detto che pure la Chiesa argentina ha “le sue luci e le sue ombre”.

“Ci furono vescovi complici della dittatura ma Bergoglio no”. Lo stesso spirito ha la difesa incondizionata fatta dalla Associazione 24 marzo, la più titolata a parlare. La dichiarazione del presidente Jorge Ithurburu è inequivocabile: “Una cosa è la responsabilità della chiesa cattolica come organizzazione, altra quella dei singoli. Bergoglio all’epoca non era neanche vescovo e di sue responsabilità individuali non c’è traccia, è evidente che l’episodio può essere letto in due modi: i capi dei due gesuiti sono responsabili di averli lasciati soli, oppure si può pensare che gli stessi capi siano intervenuti per ottenerne la liberazione. Propenderei per la seconda ipotesi: l’Esma non liberava nessuno per caso. Ma nessuno nella Chiesa ammetterà mai che è stata condotta una trattativa segreta. La Chiesa non parla di queste cose. La liberazione dei due sacerdoti resta però un fatto”.

Tutto questo non si cancella con la frivolezza di un frase smozzicata in un blog. Ripeto. Non possiamo archiviare con una scrollata di spalle o un sbuffo le accuse alla Chiesa come roba scandalistica o persecuzione anticlericale. Salvo difendere l’immissione di papa Francesco nella spirale di accuse sommarie e calunnie che ne è derivata. E non perché è il Papa. Ma perché la verità storica ce lo impone.  Le responsabilità della Chiesa durante gli anni della dittatura argentina ci sono e perfino Bergoglio ha chiesto giustamente a tutti un collettivo mea culpadurante il Giubileo del 2000. Che ahimé non si è tradotto però in una purificazione della memoria e in una riconciliazione sostanziale.

Come si sa chi scrive detesta le difese di ufficio e la tendenza a volere fra quadrare i cerchi soprattutto quando sono sformati e oblunghi. Cerchiamo di approssimarci alla verità storica e psicologica utilizzando varie competenze, senza timori riverenziali per nessuno, nemmeno per la persona del Papa, ma anche – ce lo si lasci dire - senza la sufficienza e il pressappochismo del Web dove impazza il copia incolla di tanti che ripetono senza documentarsi articoli e brani scritti da altri i quali a loro volta sono copiati e incollati da altri articoli e brani in una spirale in cui è difficile rintracciare originalità e scavo delle fonti. Compreso il grande Michael Moore, di cui è impossibile non stimare la acutezza e grandezza di polemico denunciatore del potere e che però – lo diciamo con dispiacere – ha commesso una gaffe clamorosa twittando con troppa concitazione una foto del presunto Bergoglio che dà la comunione al dittatore Videla.

Noi abbiamo preso tempo, cercando di capire e di avere maggiori ragguagli. E così abbiamo saputo che la foto è del 1990. Bergoglio aveva 54 anni a quel tempo e quel prete preso di spalle è troppo anziano per essere il futuro papa Francesco. Lo stesso Moore ha dovuto sconfessarsi poco dopo. Ma ahimé nella spirale mediatica un cinguettio si può trasformare subito in una follia di ruggiti che la realtà dei fatti riesce difficilmente a frenare. Rendendo ancora più attuale e cruciale quello che diceva il nostro Metastasio: “Voce dal sen fuggita poi richiamar non vale non si rattien lo strale quando dall’arco uscì”.

Non parliamo poi della uscita sulle donne che sarebbero state “inadatte per natura alla politica”. Una ricognizione in Google dimostra che prima del 13 marzo 2013 non ci sono lanci di dichiarazioni simili, nemmeno dalla agenzia ufficiale argentina Télam. Ma a scrivere e diffondere la reprimenda misogina mai pronunciata da Bergoglio è l’internauta “Bumper Crop (Falta Mucho)”. Su YahooAnswers, ottima fonte di risposte a molti assilli quotidiani, ma non al vano dilemma su cosa si nasconde dietro l’umiltà e la semplicità di Jorge Mario Bergoglio.

Torniamo a Verbistky. Il quale richiama ancora una volta l’accusa di Orlando Yorio il sacerdote che indicò in Bergoglio la causa del suo sequestro di cinque mesi nel 1976. Padre Orlando è morto nel 2000 in Uruguay, mai ripresosi pienamente dalle torture di cui fu vittima dentro l’ESMA. Sacerdote di grandissima spiritualità, non riuscì mai a riconciliarsi con Bergoglio su cui aveva ricevuto una testimonianza negativa da parte di Padre Gavigna, segretario generale dei gesuiti.

Al contrario padre Franz Jalics è ancora vivo. Dal 1978 risiede nel piccolo centro di Wilhelmsthal nella Baviera del papa emerito Ratzinger. Fino al 10 maggio si trova in Ungheria impegnato negli esercizi spirituali.  “Sono riconciliato con quegli eventi e per me quella vicenda è conclusa». «Dopo la nostra liberazione - scrive in un comunicato pubblicato sulla pagina jesuiten.org Jalics - ho lasciato l'Argentina. Solo anni dopo abbiamo avuto la possibilità di parlare di quegli avvenimenti con padre Bergoglio, che nel frattempo era stato nominato arcivescovo di Buenos Aires. Dopo quel colloquio abbiamo celebrato insieme una Messa pubblica e ci siamo abbracciati solennemente». Anche la Curia tedesca dei Gesuiti a Monaco ha riferito all’edizione on-line di Der Spiegel che padre Jalics alcuni anni fa è stato invitato a Buenos Aires dall’arcivescovado della capitale argentina per affrontare la questione.

Verbistky non è uno storico. Ma ha portato alla luce molti documenti di cui si negava o non si conosceva l’esistenza. Dobbiamo dire che alcune delle notizie riportate nei suoi libri, sono frutto di deduzione o di pura e semplice associazione. Si sa che ogni ipotesi storica è permessa. Anche l’illazione volendo. Ma solo al fine di reclamare maggiore trasparenza dai protagonisti degli eventi o di ottenere accesso alle fonti per potere verificare o cestinare le illazioni precedenti. Speriamo che papa Francesco consentirà presto un esame più libero e attento di tutti i materiali relativi al caso del sequestro dei due sacerdoti così da sgombrare il campo da ogni possibile dubbio, facendo brillare appieno quella luminosa sobrietà evangelica cui ha voluto ispirare il suo pontificato. E permettendo alla sua opera di riforma di dare pienamente i frutti sperati.

Per quanto ci riguarda vogliamo ripetere due cose: la prima è verificare in cosa sia consistito davvero il comportamento del giovanissimo provinciale dei gesuiti -36 anni- che ammonisce e sospende i due confratelli; la seconda è verificare se Bergoglio abbia fatto un iniziale errore di prospettiva, pensando di agire in coscienza secondo le regole dell’Ordine gesuita e della Chiesa cattolica e poi, resosi conto che il suo gesto puramente ecclesiastico aveva avuto delle tremende conseguenze umane, penali e politiche, si sia adoperato con ogni mezzo possibile per la liberazione dei due sacerdoti.

Bisogna riconoscere che Bergoglio non ha dato molte possibilità ai giudici, a Horacio Verbitsky e agli altri studiosi in tutti questi decenni di analizzare meglio la situazione. Giungendo solo nel 2010 a rigettare le accuse e la collaborazione con i militari nel libro-intervista “El jesuita”. Ma come abbiamo detto nel nostro editoriale precedente Bergoglio ha agito nel segreto proprio per rendere più efficace la sua azione e dunque la sua riservatezza sui fatti è legittima e comprensibile. Tranne che per gli anticlericali incalliti invasati da un eccessivo complottismo.

Anni prima il Cardinale si era trincerato dietro l’articolo 250 del Codice di Procedura Penale che stabilisce che i dignitari ufficiali “non hanno l'obbligo di comparire” in tribunale. In seguito ha testimoniato davanti al Quinta Sezione della Corte Federale sul sequestro dei due sacerdoti gesuiti, Orlando Yorio e Francisco Jalic, prese per l'ESMA, quando ha ricoperto il ruolo principale della Compagnia di Gesù nel paese in tempi di dittatura militare.

Sicuramente il gesuita non incline al protagonismo mediatico lo avrà fatto per riservatezza, ma proprio questo atteggiamento ha legittimato Verbitsky e molti altri a infierire su di lui. Così Bergoglio avrebbe mentito alla Giustizia dicendo che non esistevano nell'archivio episcopale documenti relativi ai detenuti desaparecidos. E se al posto di mentire avesse soltanto detto la verità in base alle sue conoscenze e alla sua coscienza? E questa verità poi si sia rivelata soggettiva alla luce dei riscontri futuri? Può capitare anche ai migliori e meglio intenzionati testimoni!

Verbistky vi legge solo una consapevole bugia. E ricorda che solo il successore José Arancedo avrebbe invece trovato un documento e lo avrebbe inviato al giudice Martina Forns. Si tratta di un report sulla riunione del dittatore Videla con i vescovi Raúl Primatesta, Juan Aramburu e Vicente Zazpe. Cosa dovevano discutere questi prelati con il generale-dittatore che gettò nel terrore l'Argentina dal 1976 al 1981 dopo il golpe contro Isabelita Perón e che oggi a 88 anni sconta una condanna a due ergastoli e 50 anni di carcere per vari crimini contro l'umanità, tra i quali l'assassinio e la tortura di 30.000 persone, compresi i due sacerdoti fatti liberare da Bergoglio?

Con grande disinvoltura i tre vescovi discussero con Videla sull’opportunità di tacere che i desaparecidos erano stati assassinati perché il dittatore intendeva proteggere gli autori dei delitti.

Un documento degli Archivi del Ministero degli Esteri chiama in causa direttamente Bergoglio. Verbitsky lo utilizza per fare riferimento a un episodio specifico: nel 1979 padre Francisco Jalics si era rifugiato in Germania. Da lì chiede il rinnovo del passaporto per evitare di rimetter piede nell’Argentina delle torture. Bergoglio si offre come intermediario. Ma l’istanza di padre Jalics viene respinta. Nella nota apposta sulla documentazione dal direttore dell’Ufficio del culto cattolico, allora organismo del ministero degli Esteri, c’è scritto: “Questo prete è un sovversivo. Ha avuto problemi con i suoi superiori ed è stato detenuto nell’Esma”. Verbitsky conclude che la fonte di queste informazioni sul sacerdote è proprio il Superiore provinciale dei gesuiti padre Bergoglio, che avrebbe tradito la fiducia di Jalics affossando l’istanza.

Quello che sfugge a chi scrive è quale connessione causale certa ci sia tra il fatto che Bergoglio si sia offerto a mediare per l’ottenimento del rinnovo del passaporto e la risposta negativa dell’amministrazione governativa? Inoltre ci sfugge perché si attribuisce a Bergoglio la frase che è stata scritta dal direttore dell’Ufficio del culto cattolico del Ministero degli esteri argentino?

Proprio nel suo libro Verbitsky riporta i resoconti dei suoi incontri con il futuro papa  in cui l’allora  Cardinale Bergoglio afferma con chiarezza: “Non ebbi mai modo di etichettarli come guerriglieri o comunisti tra l’altro perché non ho mai creduto che lo fossero”. Perché non credergli? Posto che nessun documento lo prova. E che l’unico indizio che possediamo è il de relato di padre Gavigna?

I due documenti citati da Verbitsky non portano direttamente a Bergoglio e non sono adducibili come indizi o prove nel tentato processo. A chiamare in causa il futuro papa è invece il documento classificato Direzione del culto, raccoglitore 9, schedario B2B, Arcivescovado di Buenos Aires, documento 9. Qui si legge: “Nonostante la buona volontà di padre Bergoglio, la Compagnia Argentina non ha fatto pulizia al suo interno. I gesuiti furbi per qualche tempo sono rimasti in disparte, ma adesso con gran sostegno dall’esterno di certi vescovi terzomondisti hanno cominciato una nuova fase”.

Questo documento, lungi dall’appesantire la posizione di Bergoglio mostra come qualcosa debba essere andato storto nella presunta complicità tra le gerarchie e il governo di Videla. Il riferimento alla buona volontà di Bergoglio potrebbe indicare che il governo si fidasse di lui sbagliando clamorosamente e scambiando il suo atteggiamento di mitezza per un asservimento che invece nei fatti non aveva avuto alcun riscontro e anzi aveva portato a conseguenze diverse attribuite dal governo alla “furbizia” dei gesuiti. Tra questi astuti poteva esserci proprio Bergoglio! Il quale avrebbe applicato a vantaggio di tutti la massima evangelica: “Siate semplici come le colombe e astuti come i serpenti”.

Questo scenario può aiutarci a capire anche come contestualizzare il resoconto più inquietante. In un’intervista rilasciata allo stesso Verbistky nel 1999 padre Orlando Yorio racconta il suo incontro a Roma con il segretario generale dei Gesuiti dopo la partenza dall’Argentina. “Padre Gavigna, mi aprì gli occhi. Era un colombiano che aveva vissuto in Argentina e mi conosceva bene. Mi riferì che l’ambasciatore argentino presso la Santa Sede lo aveva informato che secondo il governo eravamo stati catturati dalle Forze armate perché i nostri superiori ecclesiastici lo avevano informato che almeno uno di noi era un guerrigliero. Chiesi a Gavigna di mettermelo per iscritto e lo fece”.

Cosa dire davanti a questa scena da thriller? Immaginiamo di trovarci in aula di tribunale in cui viene processato l’operato del futuro papa. Il pubblico ministero è Horacio Verbistky. Quando in un processo qualcuno riferisce la testimonianza orale ricevuta da un terzo questa fonte si chiama “de relato” cioè qualcosa di riferito da altro, non in prima persona. Un sentito dire insomma. Il giudice del processo Bergoglio potrebbe far notare al pubblico ministero Verbistky che il “de relato” non contiene alcuna accusa specifica contro padre Bergoglio. Tuttalpiù è un indizio di colpevolezza da vagliare con attenzione. E farebbe notare anche che per ogni “de relato” si deve cercare un riscontro oggettivo. Ebbene. Vorremmo anche noi tanto poter accedere al foglio scritto di Padre Gavigna per vedere se lì viene scritto il nome di Bergoglio.

Da studioso di semiotica e di psicologia della testimonianza vorrei però andare oltre. Anche se venissimo in possesso del foglio di Gavigna dovremmo chiederci se questi riferisce sue o altrui impressioni o se ha le prove provate di quello che dice. E se dunque cita Bergoglio come responsabile con certezza morale invincibile, come si dice nei tradizionali manuali di teologia su cui anche il nuovo papa ha studiato.

Sembra invece molto capziosa un’altra accusa di Verbistky. Durante la dittatura militare Bergoglio avrebbe svolto attività politica nella Guardia di ferro, un’organizzazione della destra peronista, con il nome di una formazione rumena degli anni Venti -Trenta del Novecento, imparentata con il nazionalsocialismo. Il nuovo Papa avrebbe legato l’Università dei gesuiti ad una associazione privata controllata dalla Guardia di ferro. Ma nel putiferio di collusioni e consociativismi di vario tipo che è stata l’Argentina di quegli anni è possibile che Bergoglio non sapesse chi controllava l’associazione oppure avesse sorvolato su questa ascendenza per motivi strategici e di sano realismo. Quello che anche Verbitsky ha praticato nella sua esistenza di rivoluzionario. Ma lui non ci sta e così conclude in modo esorbitante: “Io non conosco casi moderni di vescovi che abbiano avuto una partecipazione politica così esplicita come è stata quella di Bergoglio”. “Lui agisce con il tipico stile di un politico. È in relazione costante con il mondo politico, ha persino incontri costanti con ministri del governo”.

C’è qualcosa di simile al giustizialismo di certa sinistra radicale italiana in questo additare la dignità di una persona pubblica per le sue frequentazioni, piuttosto che per le sue azioni concrete.

Senza trascinare papa Francesco nella squallida torbidezza di alcuni dibattiti italiani, mi permetto di dire che non si dovrebbe avere nulla contro gli incontri e il dialogo. E che dialogo e ricerca di mediazione non sono connivenza o complicità. Anzi mi auguro che tutta questa matassa non poi così inestricabile di associazioni, accuse, allusioni, suggestioni da inquisizione troppo zelante, offuscata dai suoi buoni propositi iniziali fino a vedere il male dovunque debba proprio finire in un incontro, un vero incontro ecumenico che porti alla pacificazione e alla purificazione della memoria dell’Argentina

In tutto questo il papa venuto “quasi dalla fine del mondo” mostra già una grande affinità e aderenza con la storia recente dell’Italia. E non solo perché si chiama Francesco.

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