Il Rinascimento a Roma

Il '500, secolo di Raffaello e Michelangelo

Una mostra a Roma racconta uno dei più importanti secoli per la storia dell’arte italiana.

di Michela Gianfranceschi

Il '500, secolo di Raffaello e Michelangelo


Nella città capitolina, dal 25 ottobre fino al 12 febbraio 2012, è in mostra Il Rinascimento a Roma. Nel segno di Michelangelo e Raffaello, imponente esposizione allestita dalla Fondazione Roma nelle belle sale di Palazzo Sciarra al Corso. I curatori Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli ammettono la difficoltà di definire un periodo storico e artistico così complesso e di offrire una selezione adeguata di opere. Ci si domanda dunque se un progetto di questo genere, che abbraccia un troppo ampio numero di elementi e chiavi di lettura, non sia effettivamente da evitare, pur comprendendone i probabili intenti educativi.

Il percorso espositivo proposto a Palazzo Sciarra descrive il complicato cosiddetto “secondo Rinascimento”, temperie culturale che ebbe luogo principalmente a Roma a seguito della grande Rinascita delle arti che a partire da Firenze aveva traghettato la storia culturale e figurativa europea dal Medioevo all’epoca moderna.

Il secondo Rinascimento si sviluppa durante il Cinquecento e non è un periodo facile da compendiare: nel 1520 muore Raffaello, un anno dopo Leonardo da Vinci: due tra i più grandi geni innovatori della nostra storia dell’arte lasciano così la loro eredità a chi li segue. Nel 1527 i lanzichecchi lasciati liberi di devastare dall’imperatore Carlo V mettono a ferro e fuoco la città di Roma per circa un anno, costringendo il papa Clemente VII Medici a rifugiarsi all’interno del Castel S. Angelo. Da questa tragedia immane la città eterna seppe tuttavia risollevarsi grazie anche alle fondamentali novità culturali che fecero fiorire intorno a quegli anni alcune tra le opere più meravigliose della nostra tradizione.

Mentre gli allievi di Raffaello raggiungono molti centri italiani ed europei diffondendo così i nuovi stilemi raffaelleschi, Roma è dominata dal genio incontrastato di Michelangelo Buonarroti. La sua religiosità drammatica si esprime sommamente nel Giudizio Universale che l’artista affresca nella Cappella Sistina tra il 1534 e il 1541, sotto il pontificato di papa Paolo III Farnese. Inoltre alla metà del secolo, a seguito della morte di Antonio da Sangallo il Giovane, nel 1546, e di papa Farnese, nel 1549, Michelangelo si occupa principalmente dell’imponente fabbrica di S. Pietro (che verrà conclusa da Maderno solo nei primi anni del Seicento).

Alla metà del Cinquecento radicali mutamenti del pensiero e del sentimento religioso spinsero Paolo III, in risposta alla riforma luterana, all’indizione del Concilio di Trento che tra il 1545 e il 1563, un anno prima della morte di Michelangelo, dettò i nuovi principi e le regole cui la Chiesa di Roma legò la propria storia culturale. La pubblicazione nel 1564 del volume dell’ecclesiastico marchigiano Giovanni Andrea Gilio, Dialogo nel quale si ragiona degli errori e degli abusi de’ pittori circa le istorie con molte annotazioni fatte sopra il Giudizio di Michelagnolo, segna un emblematico passaggio alla nuova era religiosa e artistica. All’incirca dal 1560 fino all’inizio del nuovo secolo quasi tutte le chiese su suolo italiano vengono conformate ai nuovi dettami tridentini relativamente alla sistemazione dell’altare principale e delle cappelle laterali.

Contestualmente si svilupparono e si diramarono numerose tendenze artistiche e, tra i protagonisti di quel secolo foriero di novità, l’attuale mostra a Palazzo Sciarra ricorda, oltre ai già citati Raffaello e Michelangelo, gli artisti che orbitarono intorno a Roma, ossia i pittori Giulio Romano, Sebastiano del Piombo, Daniele da Volterra – colui che fu incaricato da Pio IV di coprire gli scandalosi nudi michelangioleschi – , Francesco Salviati, i fratelli Taddeo e Federico Zuccari, Marcello Venusti, Perin del Vaga, Lucas Cranach. E poi gli scultori e architetti Giuliano da Sangallo, Bartolomeo Ammannati, Benvenuto Cellini, Valerio Belli, Jacopo Sansovino, Antonio da Sangallo il Giovane, Baldassarre Peruzzi. E molti altri. Queste personalità, convergendo fra loro, costituirono quel lento e progressivo mutamento figurativo definito dagli storici con il termine “maniera” proprio in virtù della sua qualità estetica considerata virtuosistica e ricercata, prodromo di quella rivoluzione naturalistica che di lì a poco avrebbe invaso il mondo artistico in Italia e in Europa con l’avvento della pittura di Carracci e di Caravaggio.

Il lungo percorso espositivo composto di 187 opere tenta di descrivere tutto questo e molto di più, come sarebbe corretto. Ma non riesce nel titanico tentativo di riassumere il tutto (e detto tra noi non capiamo la necessità di questa volontà restrittiva che recentemente sembra sedurre molti curatori di esposizioni): rimane in conclusione il ricordo di una mostra dal sapore essenzialmente didattico, che si è imposta un compito troppo gravoso, come criticamente i suoi curatori avevano previsto.


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