Editoriale

C’era una volta il bipolarismo

Circa 40 le formazioni politiche che potrebbero dare vita ad altrettante liste con il rischio di rendere il paese ingovernabile

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

’era una volta il bipolarismo. Le grandi (?) manovre in corso per l’allestimento delle liste elettorali e, soprattutto, per la migliore (?) individuazione delle alleanze e la riformulazione degli schieramenti stanno a indicarlo con chiarezza: la semplificazione del quadro politico derivante dalla competizione di due poli alternativi, in Italia, torna ad essere una chimera. Una chimera che diventa un paradosso, se si pensa che la legge elettorale tuttora in vigore, il famigerato “porcellum”, fu pensata non soltanto per rafforzare e tutelare il potere delle segreterie di partito, ma anche per esaltare la struttura bipolare della nostra democrazia, privando le formazioni minori di un consolidato, deleterio potere di veto.

Qui non è fuor di luogo ricordare brevemente alcune delle caratteristiche teoriche dei due sistemi in campo, il proporzionale e il maggioritario: il primo riconosce il diritto di rappresentanza parlamentare agli esponenti delle famiglie ideologiche classiche e trova il suo habitat ideale nei regimi, come il nostro, dove l’equilibrio fra i poteri dello Stato presenta comunque un’intonazione, per così dire, “parlamentare”, a scapito principalmente dell’esecutivo; il sistema maggioritario invece relega in secondo piano le ideologie e privilegia in apparenza le persone – specie nella versione che prevede l’istituzione di collegi uninominali – trasformando d’altra parte i partiti non già in comunità di pensiero radicate nei territori, bensì in strutture oligarchiche organizzate per raccogliere consensi intorno a programmi.

Nella cultura del sistema proporzionale, prosperano gli accordi in parlamento (e, nella degenerazione italiana, quelli raggiunti fuori dalle aule di Camera e Senato, al punto che spesso i segretari di partito hanno avuto un peso maggiore dei presidenti del Consiglio); nel maggioritario, la politica tende a personalizzarsi, abdicando alla coerenza fra teoria e prassi, tra sistema di valori e iniziativa politica. Ne deriva fra l’altro, in quest’ultimo caso, che il trasformismo parlamentare, tipico del proporzionale, assume spesso i caratteri negativi del tradimento personale e della corruzione.

Come si può intuire da questi rilievi per forza di cose sommari, entrambi i sistemi presentano criticità, anche perché, se la politica cammina sulle gambe degli uomini e il materiale umano è inadeguato, non c’è sistema, non c’è legge elettorale che tenga. Vale però la pena di sottolineare – anche da parte di chi, come il sottoscritto, a suo tempo si espresse con la minoranza favorevole al proporzionale – almeno un pregio del bipolarismo su base maggioritaria: la chiarezza, prima e dopo le elezioni. Prima, l’elettore sa per quale progetto e per quali uomini e alleanze va a votare; dopo, saprà chi ha vinto e chi ha perso (nel bipolarismo non valgono nulla le astruserie delle percentuali in più o in meno e dei raffronti col passato). Il corollario principale è poi costituito dall’assunzione di responsabilità: chi ha vinto deve governare, per poi presentarsi, alla scadenza del mandato, al nuovo esame del corpo elettorale, e deve poterlo fare sì sottoponendosi ai controlli predisposti da ogni democrazia, ma a patto che questi non si trasformino in deliberato e sistematico ostruzionismo, svincolato da qualsivoglia legittimazione popolare.

Ed è questo il punto debole del sistema italiano, alla luce del dettato costituzionale. Il potere esecutivo, che incarna la massima istanza dell’azione politica, infatti, non è stato dotato di tutti gli strumenti atti ad ammortizzare le pressioni non solo e non tanto degli altri poteri dello Stato, quanto dei cosiddetti “poteri forti” di impronta privatistica – che si tratti di Sindacati o di Burocrati, di lobbies finanziarie o di apparati industriali – troppe volte in grado di sottrarsi alle pastoie della legge. Va da sé che una simile debolezza può facilmente trasformarsi in alibi, in scusante per il mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati e dichiarati da parte del vincitore delle elezioni.

Ci troviamo in un panorama in cui i valori che fondavano le identità comunitarie sono stati confinati in una sorta di intermundio, salvo riaffiorare qua e là, quasi come rigurgito di un passato rimosso: si pensi agli spiriti animali della CGIL in materia di riforma del lavoro o, sul versante opposto, agli arroccamenti in tema di disciplina dell’immigrazione e di diritti degli immigrati. Assumono così importanza primaria le soluzioni tecniche ai problemi collettivi, specialmente di natura materiale (e limitiamoci alle  questioni dei rifiuti e dell’energia), ma non solo, se si pensa al peso politico delle tecnicalità in tema di riforma della giustizia e di legislazione relativa alla bioingegneria.

Ne deriva che tecnica e politica saranno sempre più inestricabilmente intrecciate, rendendo difficile l’identificazione e, soprattutto, la durata degli schieramenti, in funzione della evoluzione delle conoscenze e della stessa sensibilità popolare. Più Stato? Meno Stato? Conservazione o evoluzione riformatrice (alternativa in gran parte sovrapponibile alla precedente)? Su queste linee si può trovare il discrimine più evidente e foriero di conseguenze sull’assetto e le prospettive di una società; ma il nodo politico sta nella volontà e capacità di rimodulare il Patto Fondativo.

Se non si prenderà atto che i tempi richiedono decisioni rapide e nette e che la consolidata alternanza delle forze politiche mette ormai al riparo da tentazioni autoritarie, se insomma si smetterà di temere il rafforzamento dell’esecutivo, soprattutto in termini di progettualità, cercando di mettere ordine nei rapporti gerarchici fra politica, tecnica ed economia, fermare il nostro declino sarà davvero un’impresa disperata e una missione impossibile.

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