Ma che Hallowen!

Ecco le nostre feste macabro-gioiose per i defunti

​Dalla Sicilia la tradizione più suggestiva e ricette golose da preparare pensando ai nostri cari

di Marina Cepeda Fuentes

Ecco le nostre feste macabro-gioiose per i defunti

Teschio di zucchero

Tanti anni fa, durante il mio primo viaggio in Sicilia insieme con mio marito, Alfredo Cattabiani che allora  ricercava documentazione per il suo fortunato libro “Santi d’Italia” (Rizzoli), eravamo  ospiti  a Palermo di una  famiglia di amici. Era il primo novembre, festa di Ognissanti, ma per loro, come per molti altri siciliani fedeli alle tradizioni della loro terra, era soprattutto la vigilia  della commemorazione dei Defunti. Ebbene, l’atmosfera in quella casa non aveva nulla di funebre, anzi i bambini erano eccitatissimi: stavano preparandosi a una festa.

Eravamo sconcertati perché non avevamo mai visto nulla di simile. Ci spiegarono  che a Palermo e in altre città siciliane, nella notte fra il 1° e il 2 novembre le anime  dei parenti morti  abbandonavano i cimiteri e si recavano a frotte nelle botteghe della città a svuotare gli scaffali dei dolciumi da portare  ai bimbi delle loro famiglie.

Ed effettivamente, la mattina dopo, i figli  dei nostri amici  trovarono doni e leccornie, come fosse  il giorno della Befana. I dolci poi ci lasciarono stupefatti: erano i cosiddetti “frutti di Martorana”, che imitano perfettamente i frutti veri ma sono confezionati  con la  pasta di mandorle e poi dipinti.

E c’erano anche i “Pupi di zucchero” pupazzi  che raffigurano animaletti, carretti siciliani coloratissimi e anche alcuni personaggi della tradizione palermitana, come Santa Rosalia e i paladini.

 Non mancavano neanche le  “ossa dei  morti” così detti  perché hanno la forma di ossa: anch’esse erano di pasta di mandorle e si mangiavano allegramente, anzi si mangiano  ancora oggi per la ricorrenza dei Morti.

I nostri amici  avevano comprato quei regalini in una fiera  che si svolge ogni anno ai primi di novembre in un quartiere popolare di Palermo e che quest’anno è iniziata il  27 ottobre in Piazzale Giotto-Lennon. Ma  la “Fera de li morti” si celebra anche in molte altre città della Sicilia, da Catania a Siracusa, da Agrigento a Trapani e nelle coloratissime bancarelle si possono acquistare  giocattoli e dolciumi di ogni genere per preparare il tradizionale “Cannistru” per i bambini: i “frutti di Martorana”, appunto, e i “pupi ri zuccaru”, detti anche “pupaccena”, “pupi a cena”,   per via di una leggenda che narra di un nobile arabo caduto in miseria, che li offrì ai suoi ospiti per sopperire alla mancanza di cibo prelibato.

A proposito dei “frutti di Martorana”, la loro origine risale all’epoca dei normanni. Si racconta che nel  1193 una nobile signora di Palermo, tale Eloisa Martorana, fece costruire un monastero con il suo nome. Ebbene, in quel luogo,  fra  il silenzio e la preghiera, le suore avevano custodito il segreto della preparazione del marzapane a base di mandorle e zucchero, al quale davano strane  forme, di frutti, coloratissimi: un’eredità degli arabi che esiste anche in Spagna col nome di “mazapàn” e che piacque tanto al re Normannno da essere ribattezzato “pasta reale”.

Ma nel  “Cannistru” dei defunti ci vanno molti altri doni come i “crozzi ‘i mottu” (ossa di morto), i “pupatelli” ripieni di mandorle tostate, i taralli rivestiti di glassa zuccherata, i “nucatoli” e i “totò”  bianchi e marroni, i primi velati di zucchero, i secondi di polvere di cacao.  E ancora, gli ‘”nzuddi” con le mandorle e il miele, la frutta secca, “le rame di Napoli” che sono biscotti ricoperti di cioccolato fondente o bianco, ripieni con la marmellata di albicocche o con crema di cioccolato. 

In alcune parti della Sicilia viene preparata la “muffoletta”, una  pagnottella calda appena sfornata “cunzata”, condita,  la mattina nel 2 novembre, con olio, sale, pepe e origano, filetti di acciuga sott’olio e qualche fettina di formaggio primosale. Insomma dolciumi e cibi di ogni genere della tradizione siciliana  per riempire  il  “Cannistru” che i defunti lasceranno ai bambini.

 L’usanza, che inizialmente  può sconcertare molti, perché a prima vista potrebbe sembrare  un po’ macabra,  non è una prerogativa dei siciliani: la si ritrova anche in altri luoghi dell’Italia come il Veneto e la Sardegna, nel nord della Spagna e, soprattutto,   in Messico dove addirittura si confezionano scheletri  e teschi  di pane.

Della tradizione siciliana ne parla anche Giovanni Verga: “Ogni anno, il dì dei Morti – nell’ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi bianchi carichi di regali lucenti,  le ragazze provano sorridendo dinanzi allo specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i morti ...”.

Ma torniamo a Palermo dove ancora molti bambini credono che la sera del 1° novembre i morti si radunino alla Vucciria, il grande mercato palermitano dove una volta si teneva la fiera per il giorno dei defunti, come testimonierebbe una frase proverbiale, “Sapiri la Vuccirìa”, che significa  sapere che  “li cosi di morti”, i regalini,  non sono donati dalle anime dei trapassati ma dai vivi nel loro ricordo.

La fatidica sera i bimbi vanno a letto presto, recitando una preghierina perché i morti li esaudiscano e subito dopo  chiudono gli occhi per non dispiacere ai morti che non vogliono essere veduti:

     Armi  santi, armi santi,

     Io sugnu unu e vuatri  siti tanti:

     Mentri sugnu 'ntra stu munnu  di guai

     Cosi di morti mittitimìnni assai.

(“Anime sante, anime sante,/ io sono uno e voialtri siete tanti:/ Mentre sono  in questo mondo  di guai/ Così di doni di morti mettetemene assai”.

A Catania, prima di distribuire i loro doni, i cari estinti  passeggiano in processione per le vie recitando il rosario; e nei comuni dell’Etna si trasformano in formiche  per entrare nelle case dei loro  congiunti. A Salaparuta  lasciano i doni alle porte o alle finestre dentro  scarpe o canestrini. E durante il loro “viaggio”, così almeno accadeva una volta, le campane suonavano per tutta la notte  mentre mamme e nonne, nelle prime ore della sera, narravano a figli e nipoti alcuni episodi dei loro cari defunti.

Insomma, un’usanza bellissima, perché in questo modo quelle  “armi santi” della filastrocca infantile, quelle anime sante dei loro  cari, non muoiono, non scompaiono: perché nessun essere vivente “scompare” finché esiste la memoria, il ricordo, il racconto di quella persona che, in questo modo, continuerà  a vivere in noi.

Perciò occorrerebbe che i genitori raccontassero ai    loro figli, anche  attraverso le vecchie fotografie, come erano i nonni, i bisnonni, qualche zio defunto, un amico fedele che non è più fra noi.... Continueranno così a essere vivi, quasi vitali.

E poi, quando arriva il 2 novembre, come vuole la tradizione, occorrerebbe  commemorarli  con gioia, come fanno appunto i siciliani o i messicani, ma anche   i friulani, i veneti,  e mangiare con loro, alla loro tavola: la “tavola dei defunti” che in tanti luoghi dell’Italia  appare quel giorno colma di cibi tradizionali.

D’altronde nel  Libro del profeta Isaia c’è scritto:

In quel giorno,

il Signore degli eserciti preparerà su questo monte

un banchetto per tutti i popoli.

Egli strapperà su questo monte

il velo che copriva la faccia

di tutti i popoli

e la coltre che copriva tutte le genti.

Eliminerà la morte per sempre...

E un vero e proprio  “banchetto” per  i morti, perché non muoiano mai più - “eliminerà la morte per sempre” scriveva Isaia - viene preparato ad esempio in  Friuli e nel Veneto la vigilia del 2 novembre, detta la “Sera delle pore aneme”, la sera delle povere anime. Il piatto principale è il cosiddetto “piato dei morti”,  una minestra di fave, castagne e “zuca marina”, che una volta si poneva sul canterano della camera dov’erano vissuti  i defunti:  d’altronde, si pensava popolarmente,  il cibo vuol dire vita e se si  è capace di mangiare vuol dire che si è vivi...

Nelle case, ma ora si preparano soprattutto  in pasticceria,  le donne facevano anche  i “trandoti” e gli “ossi da morto”, pane e dolci particolari, impastati con farina e frutta secca. Dolcetti che in Calabria hanno forma allungata e si chiamano “dita di Apostolo”, mentre   in   Val Passiria (Alto Adige) raffigurano quadrupedi e sono detti infatti “cavalli di pane”.

Ebbene, secondo la tradizione di friulani e veneti, poco prima  della mezzanotte del 1° novembre  i parenti dei defunti  pranzavano  - e in alcuni luoghi lo si  fa ancora - con la “polenta infasolà”,  e cioè polente cotta  con una minestra di fagioli molto diluita. Era una  forma di comunione con i propri cari perché, secondo una tradizione antichissima conosciuta  dai Greci e dagli antichi Romani,  le anime dei defunti risiederebbero  nei baccelli degli ortaggi, come appunto, i fagioli o le fave, simbolo anche dell’incessante  ciclo di vita e di morte.

I Romani però,  che avevano un sacro terrore del ritorno sulla terra dei morti - i lemures – perché credevano che  avrebbero fatto dispetti ai vivi, celebravano la festa dei defunti, detta   Lemuria, gettando dietro le loro spalle mentre  camminavano  a piedi  nudi, un pugno di fave come scongiuro per cacciare via gli spiriti dei defunti. Il rituale è descritto da Ovidio nei Fasti, dove sono riportate le parole che i Romani   dicevano: “Getto queste fave e con esse redimo me e i miei parenti”. Si riteneva infatti che le fave fossero il cibo prediletto degli antenati dispettosi e quella cerimonia doveva servire a tenerli lontani e contenti.

Per tutto ciò,  in molte cittadine italiane fra cui  Roma, c’è tuttora l’usanza di mangiare minestre di fave secche oppure   dolcetti a forma di fave, detti “fave dei morti”   il 2  novembre, quando la Chiesa  commemora “Tutti i Fedeli Defunti”.

Una tradizione che risale alle  antiche popolazioni  celtiche che celebravano il loro  capodanno ai primi di novembre  con una  festa che durava  una  decina di giorni detta Samuin,  durante  la quale  si credeva che i morti tornassero sulla terra portando con loro frutti e fiori per provare ai vivi che l’aldilà era il migliore dei  mondi, il regno  dell’eterna primavera. Per diversi giorni dunque, tutti  insieme, vivi  e morti, festeggiavano il nuovo anno con giochi  e banchetti.

I  Celti,  come altri popoli antichi, ritenevano  che  nel teschio del morto fossero depositate energie benefiche per i  vivi; per questo motivo in molti Paesi si mangiano dolci a forma di  ossa il giorno dei defunti: le “ossi dei morti” in Italia, gli scheletri di zucchero del Messico oppure  i “huesos de santo” in Spagna.

Le  feste  del Samuin  erano  talmente radicate  nelle popolazioni  franche e anglosassoni che  nemmeno l’evangelizzazione era riuscita ad estirparle, sicché a partire dall’anno 844 i vescovi francesi dichiararono il 1° novembre festa cristiana di  Ognissanti e, dal  998, i defunti furono cristianamente commemorati il  giorno seguente.  Queste  due feste furono estese  alla Chiesa  universale soltanto alla fine del Medioevo.

Ebbene, in memoria dei nostri cari defunti ecco la ricetta delle  “FAVE DOLCI DEI MORTI” da preparare per il 2 novembre

 

* Ingredienti:

180 g di mandorle spellate

30 g di pinoli (facoltativi)

100 g di farina

100 g di zucchero

2 albumi d'uovo

30 g di burro

la scorza grattugiata di limone

2 cucchiai di liquore a piacere 1 pizzico di sale

Riducete in polvere le mandorle e mescolatele con tutti gli altri ingredienti lavorando a lungo il composto per renderlo omogeneo. Ricavate dall’impasto un rotolino, dividetelo in pezzetti e date loro la forma di una grossa fava.

Imburrate  e infarinate la placca del forno già caldo a 190°; allineatevi le fave e cuocetele per circa 15 o 20 minuti finché diventino leggermente dorate.

 Lasciatele raffreddare e cospargetele poi di zucchero a velo o di cannella in polvere.

Poi, prima di mangiare le fave dolci, dedicate un pensiero  affettuoso ai vostri cari estinti: vi proteggeranno!

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