Una Scrittrice poco conosciuta

Orsola Nemi, nel nome la sua identità

Biografia di una straordinaria intellettuale del ‘900 che fece della malattia una forza ( 1 puntata)

di Francesca Rotta Gentile

Orsola Nemi, nel nome la sua identità

Orsola Nemi

Flora Vezzani nacque a Firenze l’11 giugno 1903, ma sino al 1940 visse alla Spezia, tranne gli anni che trascorse a Badia a Ripoli dove frequentò il collegio presso le Suore Belghe di Badia.

Nel 1939, per il suo battesimo artistico, fu chiamata Orsola Nemi, pseudonimo che nacque solo nell’anno in cui  grazie a Montale furono pubblicate per la prima volta alcune sue poesie su una delle riviste più prestigiose su cui nessuna donna aveva mai scritto: «Letteratura». Dal 1939 in avanti fu per tutti, amici, parenti, giornalisti semplicemente Orsola, nome spesso affettuosamente storpiato ad esempio in Orsolina, come amava chiamarla la compagna di Montale, Drusilla Tanzi (Mosca), o ancora Orsoleta, come la chiamava invece simpaticamente Sibilla Aleramo. Per tutti fu Orsola, tranne che per il fratello Chico e per la madre che continuarono sempre a chiamarla con il soprannome datole  da bimba: Titti o Tittona. Più nomi che simbolicamente rappresentano differenti sfaccettature ed angolazioni  della medesima persona e già questo primo e semplice elemento ci può fare intuire la molteplicità e la versatilità della personalità di questa scrittrice.

Scelse uno pseudonimo perché suo padre, Faliero Vezzani, fu ufficiale di fanteria della guerra del 1915 e alla sua memoria fu decretata la medaglia d’oro e lei non voleva che la gente pensasse «è favorita perché suo padre ha avuto la medaglia d’oro», ma, infatti, per rendere omaggio alla figura paterna, scelse Orsola perché il padre morì in combattimento sul Carso il 21 ottobre, festa di Sant’ Orsola. Quello fu un giorno che rimase scolpito a caratteri di fuoco nel suo cuore; adottare il nome Orsola significò per lei, in modo segreto, legarsi a suo padre e non rinnegarne l’eredità morale.

Scelse poi Nemini, cioè «di nessuno», perché diceva sempre «volevo essere io e basta»,  poi era troppo lungo, e, lasciando cadere la «ni» finale, conservò solo Nemi. Nel quadro simbolico nominale, linea paterna e indipendenza risultano i due poli entro i quali l’autrice programmò di mantenersi; mentre è assente il riconoscimento di appartenenza alla sfera della madre e la causa è da rintracciare proprio rapporti conflittuali che ebbe con lei: una donna bellissima che non accettò mai del tutto l’infermità  della figlia (era stata colpita da poliomielite) che considerava quasi una vergogna.

Orsola visse in modo molto difficile il legame con la madre la quale, come lei stessa ricordava nelle sue confidenze più segrete, era una morfinomane e molte volte mandava la figlia ancora bimba dal farmacista per ritirare la droga che le serviva;  addirittura poteva accadere che la stessa Orsola  si trovasse costretta a coprire la madre quando all’improvviso si doveva nascondere in un angolo di una strada o nel retro di un palazzo o in qualche portone per somministrarsi la puntura di morfina.

La dipendenza della madre dalla quella nel loro ambiente era quasi un vanto, un’usanza abbastanza accettata, normale, quasi un segno di appartenenza ad un ceto alto, ma Orsola ne soffriva e ne percepiva l’inadeguatezza e l’anomalia.

Era una bambina bella e vivace, ma a soli due anni fu colpita dalla poliomielite rimanendo gravemente limitata nella possibilità di muoversi. Ne soffriva, pur senza drammatizzare, anzi, ha sempre pensato di aver avuto molto di più di tante altre persone.

Si legge infatti in un quaderno inedito, datato 1969, a p. 57

«Una ragazza di ventitré anni si è uccisa perché i postumi di poliomelite le avevano lasciato una gamba paralizzata. La sua menomazione non doveva essere grave perché aveva potuto frequentare l’università, e aiutare i suoi genitori nel bar che possiedono.

Subito com’è inevitabile, viene fuori una giornalista, che scrive sulle deficienze dei ricoveri per i vecchi ecc.

In questo caso la società è colpevole come un’alluvione che distrugge un villaggio; è una forza bruta: in una società che dà il primato indiscusso ai beni materiali, una creatura fisicamente menomata può sentirsi “fallita”. Ma perché è inerme, impreparata perché né alla scuola, né in casa le è stato insegnato il vero senso della vita, il pregio infinito del dolore, il beneficio, sia pure difficile, a portare di essere messi in disparte, e così è la intelligenza si fortifica e dilata, la sensibilità si affina, la volontà si irrobustisce, e chi è messo in disparte ad un certo punto si accorge di avere avuto più degli altri, di avere tanto da poter donare, largamente con gioia. Lo so per esperienza. Per arrivare a questo bisogna sapere che la vita non è un fatto biologico, ma un mistero d’amore. Non c’è carcere che non possa essere visitato dagli angeli, ma il prigioniero deve sapere attendere gli angeli.»

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    1 commenti per questo articolo

  • Inserito da angela rossi il 06/11/2011 10:02:32

    è sempre molto importante ripercorrere la nostra storia attraverso la diffusione di "memorie" troppo spesso dimenticate

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