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Goethe e la teoria dei colori

Non solo Werther o Faust, per lo scrittore tedesco l'affinità elettiva era con con la tavolozza del pittore

di Laerte Failli

Goethe e la teoria dei colori

Il 22 marzo 1832 moriva a Weimar Wolfgang Goethe, uno dei più originali studiosi di fenomeni ottici dell’’800; e non si tratta di una battuta né di un’omonimia:  l’autore del Werher, (1774),  Wilhem Meister(1796),  delle Affinità Elettive (1809), di numerosissime liriche e naturalmente  del Faust, che lo tenne impegnato quasi tutta la vita e la cui prima parte pubblicò nel 1808, mentre la seconda uscì postuma nel 1832, si impegnò anche in un campo decisamente “scientifico”.

Il grande tedesco ha “elaborato” una sua teoria dei colori, esposta nella suo saggio Zur Farbenlehre  (La teoria dei colori), pubblicato nel 1810 ma i cui primi studi risalgono al 1790.  Servendosi di un prisma di cristallo, Newton aveva scoperto che la luce bianca è scomponibile in raggi ai cui differenti indici di rifrazione corrispondono, nella percezione soggettiva, i diversi colori; il poeta riteneva invece che la teoria di Newton “in virtù della considerazione di cui gode ha ostacolato fortemente una libera visione delle manifestazioni dei colori […] i suoi autentici presupposti devono essere chiariti e gli antichi errori rimossi,  se la teoria dei colori deve cessare di rimanere indietro come è accaduto fino ad ora rispetto a molte parti della teoria della natura meglio elaborate”. [1]

Goethe infatti  sostiene che la luce è un fenomeno semplice e i colori derivano dalla contrapposizione polare tra chiaro e scuro, cioè tra bianco e nero. Per quanto infondata, la teoria goethiana dei colori si inserisce nella generale tendenza romantica a spiegare i fenomeni naturali come effetti della polarità, cioè a ricondurre, secondo  un metodo induttivo,  la molteplicità delle manifestazioni ad un'unica legge fondamentale della natura: “si chiudano gli occhi, si presti attento ascolto e dal più leggero soffio fino al più selvaggio rumore, dal più elementare suono fino al più complesso accordo […] sarà sempre la natura a parlare a rivelare la propria presenza, la propria forza,la propria vita e le proprie connessioni, così che un cieco, a cui l’infinitamente visibile fosse negato,  in ciò che è udibile potrà cogliere un infinitamente vivente” [2]

 Un linguaggio universale della natura che sembra anticipare Corrispondenze di Baudelaire; per il tedesco la Natura ci appare come essa si fa percepire ai nostri sensi, e non un caos  informe ma neppure un meccanismo feroce e inspiegabile di leopardiana concezione.

Terra di tale ispirazione fu l’Italia dove, a stretto contatto con artisti e pittori, sentì la necessità di avere idee e concetti chiari che lo aiutassero nella colorazione dei quadri (si dedicò infatti anche alla pittura) Come ricorda Giulio  Argan nell’introduzione al saggio “In Italia il paesaggio nitido e colorito lo appassionava ancor più dei capolavori antichi”. Giunse ben presto alla convinzione "che i colori, in quanto fenomeni fisici, dovevano essere studiati partendo dalla natura, se si vuole ottenere qualche conclusione in relazione all'arte".[3]

La rivoluzionaria teoria goethiana sui colori rifiutava quella newtoniana, basata sulle quantità e su quanto è misurabile, lasciando fuori l'essenziale del colore, vale a dire la specifica "qualità del colore", come essa si manifesta ad esempio nel giallo, nel rosso e nel blu. Quando la luce si trasforma nell’occhio di chi guarda, solo allora si forma il singolo colore. Del resto Goethe non era interessato allo studio né della luce né dell’occhio in sé, che dava già per scontati, ma alla loro relazione il cui “figlio” era in definitiva il colore. Continua infatti Argan “dunque i colori non sono cose della natura, ma della mente […] l’occhio organizzato per captare i fenomeni luminosi e colorati […] ecco perché una teoria dei colori non è che un analisi dell’attività dell’occhio. I colori sono appunto prodotti di quelle attività”.[4]

Divisa in tre parti, l’opera esamina nella prima i colori secondo il loro aspetto fisiologico, fisico e chimico distinguendo tra colori fisiologici “poiché appartengono all’occhio sano e li consideriamo come le necessarie condizioni del vedere” e i colori patologici “che rendono possibile una più piena comprensione di quelli fisiologici così come ogni condizione abnorme rende possibile la comprensione della condizione normale”. La seconda parte comprende la confutazione alle tesi di Newton mentre nella terza esamina le varie teorie sul colore dai greci in poi: “ma era del tutto impossibile scrivere una storia della teoria dei colori […] fino a quando si leggeva la teoria di Newton”.

Al di là degli aspetti più scientifici, che comunque non sono poi tanto trascurabili come fino a qualche tempo fa si credeva, di grande fascino è senz’altro la parte che esamina i rapporti fra i colori e la filosofia, la matematica, la teoria del suono, fino ad arrivare alla “azione sensibile e morale del colore”. E riguardo al suono Goethe scrive: colore e suono non si possono in alcun modo paragonare. Entrambi possono però essere riferiti ad una formula superiore e da questa essere derivati sebbene separatamente. Colore e suono sono come due fiumi che nascono da un’unica montagna ma che scorrono in condizioni del tutto diverse”.[5]

Forse, metafora più adatta sarebbe stata quella di due corde di una stessa chitarra; ma questa era più da Baudelaire o Rimbaud che non da Goethe. Ma è interessante il fatto che il rapporto tra colore e suono sia stato, rispetto ad altre esperienze  estetiche, quello più vitale a cominciare dalla speculazione greca. Lo pseudo Aristotele, nel trattato sui suoni dice “per i suoni chiari è come per i colori, anche in questo caso i colori che più stimolano la vista sono quelli che si vedono più distintamente. In modo analogo si deve ritenere che i suoni più chiari siano quelli più capaci di arrivare all’orecchio e di stimolarlo”.[6]E continua facendo appunto un parallelo tra il suono di alcuni strumenti ed effetti anche di tipo visivo che essi possono dare.

Oltre e più che sul piano scientifico, il contributo di Goethe va comunque verso la filosofia e la poesia; si può dire che partendo da radici antiche egli cominci a tessere quella tela della sinestesia e dell’analogia che Baudelaire e i suoi successori erediteranno e continueranno a tessere (sorta di tela di Penelope!) per la generazione dei poeti del ‘900.



[1] [1]Johan Wolfgang GOETHE, La teoria dei colori, a cura di Renzo Trocon, introduzione di Giulio Carlo Argan Milano, il Saggiatore, 1987, p. 7

[2]Ibidem, pp. 5-6

[3]Giulio Carlo ARGAN,  in La teoria dei colori, .cit. p. XIII

[4]Ibidem, pp. XIV - XV

[5]J.W. GOETHE, La teoria dei colori,  cit. p. 185.

[6]Ps.ARISTOTELE, I Colori e i suoni, a cura di Maria Fernanda Ferrini, Milano, Bompiani, 2008, p. 217

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