Editoriale

Centrodestra. Voglia di partito unico... o forse no

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

uesti giorni, si discute molto di “partito unico”, riferendolo ad un’ipotesi di aggregazione destinata a sostituire l’alleanza che andò sotto il nome di “centrodestra”.  Si tratta di una tentazione ritornante, malgrado il fallimento di quel “partito del predellino” che fu il Popolo della Libertà: sembra una vicenda di cent’anni fa e invece era solo il 2009; il fatto è che un conto è una federazione, un’alleanza, perfino un contratto, fra soggetti diversi ma affini e dotati di un ben distinta identità, altro conto è un artificioso meccanismo omogeneizzatore; e poi molti dei protagonisti di quel capitolo della recente storia italiana sono scomparsi dal centro della ribalta e l’unico superstite, Silvio Berlusconi, non gode di buona salute elettorale.

Dunque, Partito Unico. Curiosamente, la nozione di partito implica, al suo nascere, l’idea di pluralità e, comunque, di divisione all’interno delle società, sia civili che politiche; ma è poi seguita una fase in cui quell’idea è sfociata nel suo contrario e cioè in quella di una struttura con vocazione totalizzante, parallela a quelle dello Stato, che ha dato luogo ai regimi sorti e crollati nel Novecento. Noi oggi non corriamo questo rischio: il vagheggiato “partito unico” sarebbe solamente una sommatoria di sigle e di voti, da contrapporre ad altre formazioni, anche se il progetto non tiene conto, fra l’altro, del fatto che in politica, a differenza dell’aritmetica, due più due quasi mai fa quattro.

E allora, in questa fase, cosa significherebbe la formazione di un Partito Unico? Si tratterebbe di un contenitore elettorale, un po’ come quelli che animano la vita politica negli Stati Uniti, dove però il Partito non ha radici, non ha memoria di sezioni fumose tappezzate di poster con i rappresentanti di un pantheon ideale e animate da dibattiti e perfino da risse; luoghi odorosi di ciclostile e di colla per i manifesti da appiccicare ai cantoni dei palazzi, con lo sguardo rivolto a scorgere il sopraggiungere di eventuali “nemici”.

Questi partiti si dividevano sui metodi e le tattiche, sulla fedeltà a questo o a quel leader (o leaderino), ma si ritrovavano nell’unità di una visione generale e concordavano sulla necessità di salvaguardare - adeguandolo senza snaturarlo - il patrimonio ideale ricevuto in consegna dalle famiglie ideologiche di appartenenza. Questi partiti – di maggioranza o di opposizione - erano grandi comunità che risultavano dall’aggregazione di piccole comunità locali, e le assemblee nazionali erano anche l’occasione per conoscere o rivedere vecchi amici (compagni, camerati), e magari confrontarsi anche… ruvidamente con loro. E va ricordato che, a differenza di quanto oggi generalmente ripetuto, soltanto in via secondaria quei partiti erano espressione di blocchi sociali o di interessi collettivi, prevalendo il carattere interclassista perfino nel PCI, che pure si richiamava dottrinariamente alla lotta di classe ed all’operaismo.

Nella loro fase “eroica” - quella dell’immediato dopoguerra - questi partiti vivevano di finanziamenti degli iscritti e degli eletti, ma anche – nel caso di partiti di governo - di apporti di privati benefattori, non sempre disinteressati; poi, con l’ampliarsi della loro sfera d’azione, si arrivò a normare l’intervento finanziario dello Stato, con la legge promossa dall’on. Flaminio Piccoli (la n.195 del 1974). La democrazia ha dei costi, si diceva e si dice, e indubbiamente i partiti rappresentano – o dovrebbero rappresentare – nel gioco democratico, la cinghia di trasmissione fra la società civile e quella politica.

La progressiva erosione, fino all’eliminazione, di tali provvidenze, a seguito del referendum abrogativo del 1993, nel pieno della stagione di “mani pulite”, non poteva non avere conseguenze sulla vita di ogni formazione politica, alcune positive, altre meno. Di passata, sul versante negativo, ci limitiamo a citare la forte riduzione, fino alla scomparsa, della presenza locale (nessuno ha più le risorse per affittare o comprare i locali delle sezioni, oppure per organizzare scuole di partito). Così, i capitali rastrellati vengono canalizzati essenzialmente verso le ricorrenti competizioni elettorali. E lasciamo da parte i discorsi sulla funzione surrettizia delle “Fondazioni” e sui sempre più frequenti casi di illecita commistione fra politici, imprese e pubblici amministratori.

Ma torniamo al partito unico: va bene la dialettica interna, ma come possono stare insieme i sostenitori dei diritti civili a 360 gradi (e fra questi, il libero aborto, i matrimoni omosessuali, la liberalizzazione delle “droghe leggere”) e i sostenitori della famiglia tradizionale e dei costumi morigerati? I partecipanti ai cortei inneggianti al 25 aprile e all’8 settembre e i revisionisti della storia patria? Gli araldi del liberalismo il più possibile sganciato da regole, con i fautori dell’economia sociale? E via elencando, senza bisogno, crediamo, di precisare che da una parte vediamo schierata Forza Italia e dall’altra la Lega e Fratelli d’Italia, e senza sottolineare qui i sempre più numerosi “avvicinamenti” – nel nome della “moderazione” … - fra la residuale truppa berlusconiana e le armate “piddine”, sconfitte nelle urne, ma ancora saldamente in sella nei luoghi del potere.

E’ vero: il “vecchio” centrodestra governa ancora in alcune fra le più importanti regioni d’Italia, e le ragioni della realpolitik inducono a ritenere che quell’alleanza continuerà ancora; però le alleanze non sono eterne e in politica vince – e dura – non tanto e non solo chi è abile nei compromessi, ma chi dimostra di saper guidare forze omogenee e di avere una visione, alla quale ispirare la propria condotta quotidiana; come De Gaulle, ad esempio, insegnava e insegna.

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