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Ricordando Yukio Mishima lo scrittore che nacque postumo

La sua opera, 46 volumi, è stata quasi interamente tradotta in occidente e apprezzata dai lettori. Ecco come e dove leggerlo

di Gennaro  Malgieri

Ricordando Yukio Mishima  lo scrittore che nacque postumo

Alcuni scrittori nascono «postumi». È il caso di Yukio Mishima. Con il passare del tempo la comprensione del suo pensiero e la sua fama sono cresciute a dismisura. Dei quarantesei volumi della sua opera, quasi tutti sono stati tradotti in Occidente. Qualche anno fa Mondadori pubblicò i suoi romanzi più significativi, consacrandolo anche in Italia come uno degli scrittori più importanti del Ventesimo secolo; tra gli stranieri è uno dei più letti dal pubblico italiano e le sue opere continuano ad essere ripubblicate a getto continuo. Un delle ultime apparse, mai stata editata  in italiano, è Abito da sera (Mondadori, 214 pagine, 9,80 euro), che è stato a lungo considerato uno «svago » letterario, mentre è un veritierio e, per certi versi, agghiacciante ritratto della nuova borghesia nipponica, uscita dalla guerra e alla ricerca di uno status differente da quello che aveva. Ne viene fuori anche una sottile satira che Mishima non mancherà di ampliare, riproposta negli scritti più importanti. Il romanzo venne pubblicato su una rivista femminile tra il 1966 e il 1967 contribuendo a imporre lo scrittore anche come osservatore del costume del suo paese.

Tra romanzo, saggio e memoria è il libro di Christopher Ross, La spada di Mishima (Guanda, 281 pagine, 17,00 euro) che ricostruisce attraverso un personalissimo e originale viaggio nel Giappone moderno, la vicenda di Mishima legata alla perdita della spada che utilizzò per il suo gesto estremo. Un libro affascinante e, a tratti, tormentato, enigmatico e non privo di fascino, che testimonia a distanza di tempo come l’impronta mishimiana sulla letteratura e sulle idee contemporanee è vivissima e anzi addirittura ingigantita dal passare del tempo. Sullo sfondo, comunque, quando si ha a che fare con Mishima resta il suo ultimo atto, compiuto il 25 novembre 1970, quasi un capolavoro letterario prima che esistenziale e perfino politico: lo spettacolare seppuku al Quartier generale dell’Agenzia di Difesa giapponese con il quale intese richiamare il suo paese alle devastazioni della decadenza dovuta allo smarrimento delle tradizioni, al senso profondo di una visione della vita che i suoi connazionali stavano smarrendo.

Maria Teresa Orsi, nell’introduzione al volume dei Meridiani, infatti, afferma senza imbarazzo che Mishima «rappresenta la tradizione giapponese più autentica». Ma nello stesso tempo riconosce che è anche lo scrittore più moderno del suo paese che, tra l’altro, prima che apparisse la stella di Oe Kenzaburo, ha saputo conciliare la sua anima orientale con l’assimilazione della cultura occidentale, «fino a farne parte integrante del proprio messaggio poetico».

Un paradosso? Soltanto in apparenza. In realtà l’innato senso della bellezza, come ha sottolineato il suo biografo più importante, oltre che  suo grande  amico, Henry Scott Stokes (Vita e morte di Yukio Mishima, ed. Lindau),  che coltivò fin dalla più tenera età, gli fece scoprire che l’analogo sentimento era il fondamento della cultura classica occidentale, soprattutto greca. Ed è per questo che Mishima può, giustamente, considerarsi scrittore di due mondi, interprete di una tradizione universale, il cui stile può essere compreso anche dagli europei dai quali ha imparato molto, soprattutto «frequentando» D’Annunzio e Huysmans, Dostoevskij e Mann, Wilde e Baudelaire, ma anche Raymond Radiguet e Friedrich Nietzsche. «L’Occidente - ha notato la Orsi - peraltro è un richiamo immediato, che impone di confrontarsi con esso, di scandagliare fin dove esista la possibilità di dialogo e forse di intesa». I romanzi confermano questa considerazione. E, stilisticamente, sono appunto per questo alcuni ritenuti «scandalosi », innovatori di una tradizione letteraria che fino all’apparire di Mishima sulla scena aveva avuto come punti di riferimento Junikiro Tanizaki e Yasunari Kawabata.

L’altro «scandalo» fu la sua morte volontaria a quarantacinque anni, un’età di semina per gli altri, per lui il tempo del raccolto più maturo e paradossalmente più amaro: aveva già fatto tutto, non gli restava che il capolavoro e lo trovò in una fine consapevole, atto d’amore per la tradizione del suo paese e di coerenza estrema con quanto aveva sostenuto in tutti i suoi scritti. Non a caso, prima di togliersi la vita, quella stessa mattina, inviò al suo editore l’ultima parte della tetralogia del Mare della fertilità: più che un ordinario romanzo, un testamento.

La vita spirituale e letteraria di Mishima ha coinciso con l’essenza stessa della cultura giapponese talvolta, come si è detto, attraversata da suggestioni occidentali. In Giappone, faceva notare lo scrittore ai suoi interlocutori, vi era la tendenza a dare maggior peso alle arti, simboleggiate dall’immagine del crisantemo, piuttosto che agli aspetti guerrieri rappresentati dalla spada. Su questa apparente dissociazione si fondava l’incomprensione dei contemporanei verso la tradizione giapponese che invece era fondata sulla «miracolosa» convivenza dei due momenti. Mishima si propose di sanare questa frattura. E cominciò subito, a vent’anni, ottenendo la consacrazione letteraria quando era poco più che un ragazzo. Fu Confessioni di una maschera (1949) che lo fece riconoscere come astro nascente della letteratura giapponese: «Capolavoro dell’angoscia e allo stesso tempo dell’atonia », secondo Margherite Yourcenar. Il romanzo è l’autobiografia dello stato d’animo di una generazione pervasa da uno struggente desiderio di annullamento e insieme di erotismo inappagato. La sintesi, insomma, della stessa vocazione di Mishima che riuscì a far coincidere l’amore e la morte in un quadro di bellezza personale.

Vennero poi altri lavori, come Sete d’amore, Colori proibiti, La voce delle onde, Il padiglione d’oro. Negli ultimi due nichilismo e religiosità, sentimento tragico della vita, esaltazione del bello e sentimento di purificazione sono motivi che si rincorrono e rivelano un’anima inquieta che sta precisando il suo percorso verso un Destino che giorno dopo giorno si va delineando. La Tradizione, ancorché disconosciuta, può restare perennemente racchiusa nella memoria estetica di un popolo, di uno scrittore o di un guerriero? L’interrogativo sorge davanti al punto di svolta della vita di Mishima.

Fino al 1960 egli aveva rappresentato il «disagio dei valori » nella società giapponese che stava perdendo la sua anima. Il Giappone non riconosceva più se stesso, la corruzione dei costumi dilagava, nessun principio spirituale veniva preservato. Prese forma in questo clima il romanzo Dopo il banchetto che segnò l’ingresso vibrante e consapevole di Mishima nella politica. Con questo libro, infatti, lo scrittore stigmatizzò duramente il mercanteggiamento elettorale a cui erano dediti i politici e i costumi dell’alta borghesia. Il successo che ottenne risarcì parzialmente Mishima dal fiasco di alcuni lavori precedenti e lo convinse che qualcosa era mutato nel suo Paese. Così prese a guardare con attenzione fuori di sé, scoprendo un mondo in febbrile agitazione, percorso da fermenti che indicavano la volontà di superare una volta per tutte il dopoguerra.

Con stupore Mishima constatò che in Giappone s’andava formando un’opinione pubblica che avversava quella parte della Costituzione che imponeva al paese la rinuncia delle sue prerogative militari. Resistenza che sfiorò la rivolta quando, nel maggio 1960, venne concluso il Trattato di sicurezza nippo-americano con il quale si sancì non tanto una collaborazione militare tra i due Paesi, ma una sorta di sudditanza del Giappone agli Stati Uniti dal momento che il primo era costretto a offrire basi militari agli Usa e a confermare la rinuncia a ogni intervento bellico. In cambio gli Stati Uniti si impegnavano a garantire al Giappone la loro protezione militare. Alla sigla del Trattato molti giapponesi reagirono violentemente: disordini si registrarono in tutto il paese. Mishima fu con i rivoltosi.

Le sommosse stimolarono la sua fantasia e lo spinsero a scrivere Patriottismo, uno dei suoi racconti più belli e riusciti, nel quale l’estetica e l’etica bushido, unite a un sensualismo e a un erotismo straordinariamente raffinati, rivelano un Giappone segreto e seducente che, ancora oggi, colpisce per bellezza e delicatezza, elementi che formano l’essenza del vero eroismo. Patriottismo fu ispirato all’incidente di Ni Ni Roku del 26 febbraio 1936, quando il movimento dei giovani ufficiali preparò l’insurrezione di una parte dell’esercito contro il sistema asservito agli interessi dell’alta finanza; l’insurrezione era tesa a promuovere la restaurazione imperiale, una sorta di «rivoluzione conservatrice». Venti giovani ufficiali occuparono la zona dei ministeri adiacente il Palazzo imperiale e chiesero le dimissioni del governo considerato corrotto e traditore con l’avocazione di tutti i poteri militari da parte dell’imperatore.

Il proclama venne respinto da Hiro Hito, inaspettatamente, perché, si disse, influenzato da quegli stessi ambienti economico-finanziari contro i quali i giovani ufficiali avevano inscenato il loro debole colpo di Stato. L’imperatore, inoltre, orordinò all’esercito di reprimere la rivolta. Mishima fu affascinato dalla vicenda sul cui sfondo situò la storia del protagonista di Patriottismo, un giovane tenente della Guardia imperiale, amico degli insorti, ma da questi tenuto all’oscuro della trama perché appena sposato con una giovane donna di incomparabile bellezza. Allo scoppio della rivolta, comandato di attaccare i suoi commilitoni, preferì togliersi la vita e con lui la moglie.

Erotismo, eroismo e morte si rincorrevano ancora una volta. Dello stesso filone fanno parte altri romanzi nei quali lo scrittore esaltò in massimo grado i valori patriottici e la bellezza, come Il crisantemo del decimo giorno e, soprattutto, Le voci degli spiriti degli eroi. Nel secondo Mishima descrive una cerimonia scintoista immaginaria nella quale vengono richiamate le anime dei giovani ufficiali del fallito colpo di Stato e quelle dei kamikaze. Gli uni rimproverano all’imperatore il rifiuto di sanzionare la loro insurrezione; gli altri di aver tradito la loro fede e il loro sacrificio quando ha accettato il Ningen Sengen, la dichiarazione di rinuncia alla sua natura divina. In un’intervista concessa poco prima di uccidersi allo scrittore comunista Furubayashi Takasashi, Mishima disse: «Penso che anche il popolo ricerchi l’Assoluto. Non credo che possa soddisfarsi solo con cose relativistiche. Se guardiamo la storia giapponese è così. Il Giappone oggi vive in un perfetto relativismo, ma questo è un fenomeno molto recente, di appena una decina di anni. Se lo paragoniamo alla nostra lunga storia, è un periodo di tempo brevissimo. E in ogni caso la sostanza di questo relativismo non soddisfa. Perciò oggi cresce sempre più l’interesse per la filosofia, il buddismo, che non è altro che l’aspirazione all’Assoluto. Non credo che il popolo giapponese possa soddisfarsi con la felicità del relativismo».

Mishima non sottovalutava la capacità del relativismo di annichilire spiritualmente un popolo. Perciò la sua convinzione che la cultura, e in particolare la letteratura, avrebbe potuto ridestare i caratteri della «giapponesità» lo portarono a enfatizzare il valore fondante l’etica della Tradizione quando già i segni della decadenza erano evidenti: il bushido. Lo fece, soprattutto, riproponendo nel 1967 un testo nel quale ne è racchiusa l’essenza: l’Hagakure di Jamamoto Jocho. Ma anche dando vita all’Associazione degli Scudi (Tate no Kai) ispirata agli ideali spirituali, patriottici ed eroici della tradizione giapponese.

Tra il 1965 e il 1970 la rappresentazione dell’equilibrio tra il Crisantemo e la Spada, Mishima la racchiuse genialmente nel suo capolavoro letterario, Il mare della fertilità, tetralogia sulla società nipponica del Ventesimo secolo, nella quale, per quanto devastata, lo scrittore coglieva elementi per una possibile restaurazione culturale e spirituale. I quattro romanzi del ciclo - Neve di primavera, Cavalli in fuga, Il Tempio dell’alba, L’Angelo in decomposizione - sottendono la nozione di reincarnazione. Ma è nel secondo volume della tetralogia, Cavalli in fuga, che Mishima esprime con metafore assai efficaci e in uno stile scintillante le sue idee politiche e religiose ponendole ancora una volta sullo sfondo dei violenti contrasti che caratterizzarono il Giappone negli anni Trenta.

Alla fine della sua navigazione Mishima trovò il Grande mare che avrebbe solcato in compagnia delle tante anime del Giappone che aveva fatto rivivere nella sua opera letteraria. C’era infatti una tumultuosa, invisibile folla il 25 novembre 1970 nell’ufficio del generale Mashita al Quartier generale dello Jeitai quando il più grande scrittore giapponese del Ventesimo secolo si accasciava sul pavimento, con l’addome squarciato, mormorando per l’ultima volta «Lunga vita all’Imperatore»: Tenno heika banzai! Qualcosa di più di un omaggio formale. Quasi una preghiera. 

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