Editoriale

Stile Bisanzio. Il paese muore ma ci si accapiglia sull'inutile

Giuseppe del Ninno

di Giuseppe del Ninno

spetto delle chiacchiere di Bruxelles o di quelle italiane sulle possibili coalizioni e sulle lotte per la leadership, la realtà italiana s’impossessa delle prime pagine dei giornali, con una stagionalità che scoraggia qualunque cittadino lettore ed elettore. E quando diciamo realtà ci riferiamo non solo alle cose ed agli accadimenti quotidiani – alluvioni d’inverno, incendi d’estate – ma a tutto il flusso di contrattempi piccoli e grandi, di insicurezze piccole e grandi che costellano e infelicitano la nostra vita quotidiana.

Si ha la sensazione di essere scivolati in quelle sabbie mobili che nei fumetti di quando eravamo bambini inghiottivano i cattivi e dalle quali l’eroe di turno riusciva a salvare i buoni. Le città in preda al disordine endemico, i territori abbandonati, la burocrazia capace di conciliare impotenza e prepotenza, il malcostume che contagia anche le legioni di turisti straccioni girovaganti fra i nostri monumenti stuprati (qui si piscia nell’Arno o nella Barcaccia del Bernini, lì ci si rinfresca nella fontana di Trevi o si scalfisce il Colosseo per incidere un nome insignificante): questo e il nostro panorama, e tutte queste umiliazioni e frustrazioni quotidiane fanno il paio con quelle che ripetutamente vengono inflitte alla nostra Italia nelle cancellerie internazionali e sui tavoli di Bruxelles.

Ma al di là di queste avvilenti constatazioni, vi è una considerazione da fare: il dibattito politico si è immiserito nelle meschine lotte di potere a tutti i livelli, ma soprattutto è regredito nelle regioni del pre-politico, quelle dove non hanno senso le divisioni sul piano delle enunciazioni, ma ci si sottrae alle proposte per attuare quelle enunciazioni di principio o si arriva a ricopiare quelle dell’avversario, negandolo. Probabilmente, la classe dirigente di questo sventurato paese non è più in grado di formulare e sostenere – magari mediando – progetti idonei a risolvere almeno i principali problemi che ci affliggono.

Che senso ha infatti parlare di sicurezza, di rilancio dell’economia, di creazione di posti di lavoro, di difesa dei confini, di trasporti che funzionino, di efficiente raccolta e smaltimento di rifiuti, di gestione del territorio, senza munire della forza e della coerenza necessarie i provvedimenti via via adottati? E che senso ha parlarne come di programmi elettorali? C’è forse qualcuno contrario alla sicurezza, alla lotta alla disoccupazione, alla cura dell’ambiente?

O forse i ricorrenti crolli di palazzine e viadotti, gli incendi biblici, il cronico vilipendio delle città, le siccità estive e gli allagamenti invernali, l’inefficienza e la corruzione che presiedono ad ogni post-terremoto e ad ogni sbarco e successiva “sistemazione” di migranti sono tutti fenomeni da attribuire a oscure centrali di potere opaco, a consorterie non debellabili?

Dobbiamo arrenderci a un pessimismo senza speranze? Dobbiamo rinunciare del tutto alla politica? C’è da sorridere amaro, quando si ironizza sul fascismo che faceva arrivare i treni in orario: intanto, la macchina della pubblica amministrazione funzionava e al cittadino veniva proposta e perfino imposta una visione d’insieme, che riscuoteva consenso all’interno (ricordate Renzo De Felice?) e rispetto, magari ostile, all’estero. Per non dire che i giovani dirigenti del fascismo, in testa Balbo, dimostravano ogni giorno di saper validamente rimpiazzare le vecchie classi di un liberalismo decadente. E pazienza se correrò il rischio di infrangere la deliberanda legge Fiano (quanto ai nostri giovani politici emergenti, basti pensare al flop accertato della Raggi e a quello preannunciato dalle gaffe di Di Maio, per corroborare il nostro sconforto).

Del resto, quando il governo o la maggioranza che lo sostiene vara o tenta di varare un provvedimento che risponde a una più ampia visione della vita e del mondo, tipo il disegno di legge sullo ius soli, ne vien fuori un progetto pasticciato e pericoloso per la comunità nazionale; e non a caso quest’ultima palesa nei sondaggi la sua contrarietà, tanto da indurre i proponenti a rallentamenti dell’iter legislativo o a ripensamenti.

E intanto ci dividiamo su propositi che attengono alla pre-politica, senza riuscire a togliere un masso da una strada provinciale o a fornire un tetto decente ai terremotati, a riparare un acquedotto o a prevenire un incendio o un crollo. Si parla spesso di “grande coalizione” o di governo di salute pubblica, ma solo per il timore della casta politica di perdere potere e connessi privilegi e soprattutto per fronteggiare il crescente disimpegno (leggi astensionismo) dei cittadini: meglio l’abbraccio con il nemico, se mi può aiutare a restare sulla mia poltrona.

Se pensiamo che la grande stagione dei lavori pubblici, della modernizzazione e dell’orgoglio nazionale e’ andata a coincidere con la fioritura delle grandi visioni – da quella fascista a quella democristiana – e che il declino delle ideologie ha partorito la supplenza della magistrature e la crescente mediocrità e rapacità dei nuovi politici, c’e’ da rimpiangere proprio i tempi delle famiglie ideologiche in competizione, ma anche in alleanza, fra loro.

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